Hip Hop

La rabbia, l’idea di vita e di morte, l’autenticità di Paky. L’incontro nella sua Rozzano

Abbiamo intervistato il rapper che pubblica oggi il suo primo album ufficiale, “Salvatore”, nel luogo più adatto: il suo paese, alle porte di Milano. E si è aperto come raramente aveva mai fatto: su ciò che non viene fatto a livello locale, su Marra e Guè, sulla famiglia

Autore Cristiana Lapresa
  • Il11 Marzo 2022
La rabbia, l’idea di vita e di morte, l’autenticità di Paky. L’incontro nella sua Rozzano

Paky. Foto ufficio stampa

«Paky, perché siamo qui?». «Perché a Rozzano è dove è nato tutto. Anche se sono nato a Napoli, qua sono cresciuto. Qui si è sviluppata la mia voglia di emergere, la mia voglia di rivalsa, la mia rabbia». Lo dice stringendo i pugni, Paky, alias di Vincenzo Mattera (classe ’99) in un pomeriggio dal sole tiepido. Ci troviamo in un bar nei pressi di via delle Mimose, a Rozzano, poco fuori Milano. Proprio ieri sera, fuori dallo stesso bar, la piazza si è riempita di gente per un live quasi “abusivo” dove l’artista ha presentato con orgoglio il primo album in uscita oggi per Island Records: Salvatore.

Salvatore è il nome di una persona cara che Paky ha perso e alla quale ha voluto dedicare l’intero disco. Quando lo incontro, il dolore gli si legge ancora negli occhi, anche se è accaduto quattro anni fa, come racconta nel brano omonimo contenuto nel progetto. Quello che divide la tracklist di diciassette pezzi a metà, l’unico senza musica, perché «ti devi concentrare sulle parole. Se ci fosse stata la musica avrei dovuto metterla in rima, la gente l’avrebbe vista come una canzone», spiega il rapper. «Ma sono io che ti parlo nell’orecchio, che spiego a te, che hai le cuffie, perché il disco si chiama così, la storia che c’è dietro».

“Rozzi”

Di storie, in effetti, il giovane artista di Rozzano ne ha da raccontare. Storie di un quartiere in cui le difficoltà non mancano, e questo si vede dalle espressioni delle persone per strada. Nessuna di quelle che abbiamo incrociato sorride, mentre il nostro van ci accompagna lungo un tragitto che ripercorre i luoghi chiave di questa cittadina, molti dei quali sono immortalati nei primi video dell’artista. Ognuno di quei volti è perso in qualche pensiero. E nelle tante palazzine, alte almeno dieci piani, ragazzi e adulti trascorrono la loro vita al meglio che possono, qualcuno con la speranza di cambiare le cose, un giorno, un po’ come Paky.

Anche se il successo è arrivato con alcuni singoli e collaborazioni fortunate – come Rozzi, un inno del quartiere, che immortala anche il parco adiacente a via delle Mimose, simbolo della socialità di Rozzano – e vari remix di brani contenuti in dischi ormai culto dell’hip hop italiano (da Persona di Marracash a Famoso di Sfera Ebbasta), Paky è rimasto la stessa persona che era prima. Non ha cambiato abitudini, né ha intenzione di farlo, nonostante si sia aperto per lui un nuovo ventaglio di possibilità grazie alla musica.

«Sono qua tutti i giorni. Tutte le mattine scendo, sto con i ragazzi, soprattutto ragazzini. Gli do dei consigli, cerco di spronarli. Tutto quello che mi è possibile fare lo faccio. Poi magari un giorno, se me ne dovessi andare… O meglio, un giorno, se devo prendere una casa, la prendo qua, prendo la più bella che c’è, ma la prendo qua».

«Tieni, amore della zia», dice la barista porgendogli lo zucchero per il caffè che gli è appena arrivato. Non sappiamo se sia davvero una parente di Paky, in effetti. Nella grande famiglia di Rozzano tutti sono un po’ zii o cugini, apprendiamo. C’è una sorta di vincolo ancestrale che lega gli abitanti del posto, e molto di questo collante è costituito dal dolore di difficoltà condivise. La maggior parte delle palazzine è abitata da persone di origini campane, e la sensazione è quella di essere in un quartiere di Napoli, piuttosto che nella provincia di Milano. Un surreale transfer di sensazioni, quasi assurdo pensando che a pochi chilometri c’è la big city, stendardo di opportunità e di ricchezza.

Per Paky, però, non è il Duomo o chissà quale altra famosa piazza di Milano, il suo mondo. Non ci sono luoghi di ritrovo che hanno segnato per lui l’inizio del suo percorso con la musica. Nessun gruppetto che facesse freestyle, o meglio, nessuno a cui lui si sia mai accostato o che l’abbia incuriosito. «Sapevo che quella roba là non mi sarebbe mai appartenuta. Io ero altro», spiega sorseggiando il caffè. «Poi la vita mi ha portato qui. Ho iniziato a fare questo mestiere solo per rabbia, collegata a vari lutti che ho avuto in famiglia. Varie sofferenze mie, solo quello mi ha spronato». Il suo essere artista, quindi, nasce da una crepa, un po’ come nel kintsugi: il suo oro (la musica) riempie le profonde spaccature della sua vita.

«Sono arrabbiato perché qua non c’è niente che vada bene», risponde, posando nervosamente il cucchiaino nella tazzina. «Va tutto male. Se tu stessi qua una settimana con me ti farei vedere un sacco di cose, se vivessi qua farei venire la rabbia pure a te. Qua chiunque, qualsiasi ragazzo, anche piccolo, ha la rabbia dentro, li vedo. Io ero come loro prima, e so come la vivono».

Gli chiediamo quali siano le cose che non vanno bene, secondo lui, a Rozzano. Non che non si riesca a indovinare che la zona abbia diverse criticità. Persino l’alta torre di Telecom Italia (ben 187 metri, la quarta struttura più alta in Italia) sembra guardare impassibile quello che si svolge al di sotto, nella sua maestosità silenziosa. Dal basso, invece, per gli abitanti della zona quella torre resta un punto da guardare, quando ci si perde – simbolicamente e fisicamente (nel video di Rozzi si intravede diverse volte).

La Torre Telecom Italia, a Rozzano.

«Qua mancano le istituzioni, lo Stato non fa un cazzo, il comune ancora meno. Siamo affidati a persone, parlo dello Stato, che non sanno di cosa abbiamo bisogno noi. Di cosa ha bisogno un ragazzo, un bambino», spiega ancora Paky. «Fanno quello che pensano sia giusto per loro, il tram più lungo, la strada pulita. Qua a nessun frega un cazzo. Qua manca altro».

«Mancano le iniziative, poi non so, non faccio il politico! Ma tante cose le ho anche proposte. Aggiustare posti, fare campi da calcio, magari in collaborazione con brand come Adidas, ma a volte mi stanno a sentire e a volte no. Forse perché sono ancora piccolo, magari quando sarò più grande lo faranno. Magari sarò il sindaco di Rozzano! Forse un giorno mi candido, se questi qua continuano così».

«Se Dio vuole il Comune ci darà uno spazio per fare degli studi di registrazione per i ragazzi, tutto gratuito, ovviamente. Per i ragazzi che hanno voglia di fare e di dire. È una cosa che io non ho avuto la possibilità di fare, se non quando sono diventato bravo, quando tutti mi volevano. Ma nessuno ti “vuole” per aiutarti, questo è il problema», racconta Paky, addentrandoci nel discorso sulla musica. «Chiunque si avvicini a te lo fa non perché sei bravo, ma perché magari un giorno diventi famoso e si mangiano i tuoi soldi. Non si può diventare famosi ed essere solo felici per quella persona. Sono tutti figli di puttana qua, questa è la realtà».

«Ma anche non solo per la musica. Qui più che altro serve far capire ai ragazzi che devono credere in qualsiasi cosa, dal calcio al basket, al tennis, alla scuola. Se vuoi, puoi, e io ne sono la dimostrazione. Loro lo sanno!»

«I ragazzi si sono accorti che c’è luce. Nel buio, c’è un’uscita. Prima no, non c’era. Io l’uscita non l’ho mai vista, l’ho vista solo quando ci ho provato davvero. Ed ero l’unico dei miei amici che ha voluto tentare. Chiunque qui abbia un sogno, se lo autodistrugge».

Tranne Paky. L’unico, che è riuscito a creare dal niente un collettivo, GLORY, team che affianca l’artista da diversi anni e fatto di ragazzi come lui, alcuni con un legame di sangue, altri no, anche se la differenza è quasi impercettibile. È la gloria di chi ha costruito qualcosa da zero, puntando solo sulle proprie forze, la gloria immortalata in un murales in via Lillà, dove il nostro van si è fermato per un’altra tappa di questo viaggio fra le strade di Rozzano, per toccare con mano i luoghi simbolo per l’artista.

Il murales in via Lillà, a Rozzano

Il murales non è lontano da un altro punto cardine per Paky: il Rozzano Ink Studio Tattoo, dove prende vita non solo il tatuaggio sul volto dell’artista, ma anche la cover dell’album Salvatore.

Salvatore

La nostra chiacchierata continua nel bar in cui siamo seduti insieme a Vincenzo – Paky. Ora è a suo agio e sembra che la tensione si sia sciolta rispetto all’inizio della conversazione. Eppure stiamo per andare più a fondo nel suo disco, sicuramente complesso, per stomaci forti. La tracklist è divisa in due parti, come spiegavamo: la prima parte contiene i banger, con hit come Blauer (che ha anticipato il disco), No Wallet (con Marracash), Star (con Shiva), in cui si ritrova tutta la grinta del rapper. La seconda, invece, contiene le storie più intime.

«Una parte in cui sono vivo, un’altra in cui non lo sono», ha detto lo stesso Paky sulla scelta di dividere la tracklist in due. Un continuo alternarsi fra luce e ombra, vita e morte. Contrasti che fanno parte della sua musica, certo, ma anche e soprattutto delle vicende della sua vita.

«Io penso che chiunque abbia una parte di luce e una parte più scura. Il fatto di dividere il disco in due è solo una forma artistica, niente di particolare. Sapevo però che il progetto aveva bisogno di quella sofferenza, di quelle parole là. Ho dovuto scavare per scrivere certe cose, non è stato facile», racconta Paky. «Sono cose tue, e quando le rendi pubbliche diventano di tutti, ti senti quasi spogliato. E c’è contrasto perché c’è sofferenza, perché vivo qua, perché le cose mi sono andate male. La parte felice è perché sono un ragazzo normale, come tutti gli altri, che ha voglia di vivere, di fare. Però parlo anche di morte, non perché io voglia morire, ma perché è l’unica certezza che abbiamo nella vita. Quindi bisogna anche prepararsi a quella roba là, non fa male».

La cover di Salvatore

Paky ha poco più di vent’anni e sentire un ragazzo così giovane affrontare quasi ossessivamente un argomento come la morte, non è una cosa da tutti i giorni. L’album è ricco di immagini che rimandano a questo. “Chissà io che fine farò, quando sarà tutto spento”, canta in Vivi o muori (con Guè). Anche Giorno del giudizio (con Luchè e Mahmood, quest’ultimo accostandosi a un genere molto lontano dal proprio ha dato un contributo incredibile con la propria voce) è uno dei brani più cupi e allo stesso tempo malinconici dell’album. Ma forse quell’ossessione di cosa ci sarà “dopo” viene da qualcosa di molto più profondo, qualcosa con cui Paky non ha ancora fatto pace. Qualcosa che racconta anche nella title track, Salvatore.

«Penso che questo sia legato ai lutti vissuti dalla mia famiglia. Mi sono visto portare via tante cose che mi appartenevano, a cui tenevo. Una volta tuo zio, poi tuo nonno. Poi passano gli anni e la persona che ti faceva da padre non c’è più, non hai più neanche quello. Per me è come se avessi avuto una maledizione, ora mi sento fortunato e sfortunato allo stesso tempo. Perché più di uno, dall’alto ora mi sta guardando».

Paky, Salvatore e gli altri

Eppure quello di Paky è, da un certo punto di vista, anche un mondo fatto di un po’ di fortuna. Quella di aver avuto dalla sua parte, e nel disco, dei veri amici “in questo gioco” (Shiva e Geolier), ma anche chi inconsapevolmente lo ha spinto a volersi raccontare con la musica: Luchè. «È la ragione per la quale ho iniziato a fare questo lavoro. Potrei rappare a memoria ogni sua rima scritta, un paio di queste le ho tatuate sulla pelle. Mi sento figlio di quella poesia cruda», rivela Paky. Ma c’è anche chi ha creduto in lui sin dall’inizio: Marra e Guè. Due colossi, coloro che per l’artista rappresentano “quello che vorrei essere un giorno. Sto parlando di status, nessuno può dire nulla di loro”.

«Sai che c’è», risponde Paky tornando coi piedi per terra, «è che qua questo mestiere lo impari da solo. Non c’è nessuno che ti insegna a far rime. Nessuno ti consiglia più, anzi, magari! Sarei più forte. Qui è tutta una gelosia, se ti devono dare un consiglio non te lo danno, altrimenti diventi più forte di loro».

«Io penso, è so che è brutto da dire, che quella roba là non sia reale, perché l’amore in questa roba non prevale. Magari il gesto è bello, è tutto ammirevole, ma questo non c’è poi nella realtà, ma non sono io che te lo devo dire. Io personalmente ho partecipato al video solo per sdebitarmi con Marra e Guè. Più che altro mi ha dato fastidio che dal video sia emersa una pace che non esiste, un “amore” finto».

Paky dice la sua con trasparenza. Sa quello che ci sta raccontando. Ma non gli interessa quello che se ne pensi, anche perché dell’autenticità ne ha fatto davvero la sua arma migliore. «Essere autentici è la mia prerogativa. Sono emerso per questo, sono vero, questa roba traspare. Non perché sia un bravo rapper o abbia la tecnica. La gente ha visto che quello che faccio è realtà, non sono un bugiardo».

Nemmeno nel raccontarci come stanno davvero le cose, fra faide tra quartieri. Com’è noto, fra le varie zone di Milano c’è spesso rivalità, ma Paky conserva il suo essere autentico anche fuori dalla musica, in tutto quello che lo riguarda.

«Se dovessi alimentare il fuoco, farei come fanno tanti, nelle stories su Instagram. Ma non mi serve il telefono per alimentare screzi. Perché farlo, per farci guardare da più persone e far sapere che ci odiamo e far sapere che prima o poi qualcuno farà qualcosa all’altro? Sarei stupido e ingenuo. E poi non cerco attenzioni, c’è chi le cerca e chi no. Io non le cerco. Se vuoi la guerra, ti do la guerra. Ti do quello che tu cerchi».

«I miei cugini. Sono le persone che l’hanno vissuto con me, insieme ai miei amici. Se faccio un pezzo lo faccio ascoltare a loro, non me la sento però di far sentire il disco a mia madre, mia sorella o mio padre, non so se ce la farei ad ascoltarlo insieme a loro. Quando parlo di cose vere, chi ascolta ed è coinvolto sa che quella cosa lo riguarda. Chi non lo sa, magari se la vive come fiction e magari mi elogia pure. Ma non voglio essere elogiato per la sofferenza».

«È un mondo particolare. Ma è un bel patto quello con Jacopo Pesce! L’importante è imparare a convivere con queste persone. Anche avere a che fare coi giornalisti è piacevole, è diverso da quello a cui sono abituato, mi sento di dover dire qualcosa, di comunicare. Sento che sia giusto che siate qua a parlare con me».

Anche noi pensiamo sia giusto essere stati lì a parlare con Paky. Lì, a Rozzano, fra i murales e le torri d’avorio, simbolo di sogni e di desideri rubati troppo spesso dalla vita reale. Per capire cosa c’è fra le strade in cui è cresciuto Paky, dove si alternano felicità e sofferenza. E per scoprire che la verità sta nella stessa scelta di non avere grate alle finestre, sulle palazzine di dieci piani: si può essere figli di un’inevitabile rassegnazione, o custodi segreti di una speranza dura a morire.

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