Rosa Chemical: « Il mio mondo senza odio, tra linguaggio e alta moda»
Quattro chiacchiere con Rosa Chemical per l’uscita di Forever and Ever. L’intervista completa sarà sul prossimo numero di Billboard Italia
Domani il rap game accoglierà la repack di Forever, apprezzato disco d’esordio di Rosa Chemical. Il progetto Forever and Ever, impreziosito da featuring del calibro di Guè Pequeno, rappresenta solo l’ultimo tassello dell’ambizioso mosaico che l’artista piemontese classe ’98 sta costruendo tra musica, estetica e concezione culturale. Proprio quest’ultimo aspetto ha inciso tantissimo sul percorso di Rosa, che ha potuto emergere nell’offerta anche grazie ad un modo di porsi riguardo a temi come il sesso e i retaggi binari decisamente al passo coi tempi. Di questo ed altro abbiamo parlato con lui lungo un’intervista telefonica ricca di spunti: dall’alta moda al linguaggio, passando inevitabilmente per le sue ambizioni musicali. Di seguito vi proponiamo un estratto. Potrete leggere il resto sul prossimo numero di Billboard Italia.
L’intervista a Rosa Chemical
Partiamo da Forever and Ever. Cosa aggiunge questo progetto al debut album?
È una specie di riassunto. Abbiamo preso tutto il meglio del disco e lo abbiamo semplificato, riducendo il numero delle tracce. Sono la versione aggiornata. Stilisticamente aggiunge un po’ di mainstream. Questa repack dà una chiave di lettura un po’ più leggera al tutto.
L’obiettivo è portare la tua musica a tutti?
È l’opposto. Voglio portare tutti al mio standard.
La moda ha un ruolo centrale nel progetto Rosa Chemical. In passato hai anche posato per Gucci.
Consiglio assolutamente a chi vuole fare musica di associarci un’immagine. L’Italia ne ha bisogno, perché quelle che vediamo sono quasi tutte uguali. Prima di fare musica mi sono avvicinato al mondo della moda perché sono stato fidanzato per anni con una modella. Ho vissuto tutto quel mondo lì, i casting, i servizi fotografici, le sfilate… era il pane quotidiano, e mi ha sempre affascinato. Con la musica ho mantenuto quell’interesse, anche nel modo di vestire.
Da Riccardo Tisci alla pittura
Brand e creativi di riferimento?
L’esperienza con Gucci mi ha formato. Per quel che riguarda gli stilisti e i creativi sicuramente Alessandro Michele, Riccardo Tisci e Demna Gvasalia. Tra i marchi Balenciaga, Maison Margiela, Burberry… adesso dei miei amici stanno diventando il mio brand preferito, si chiamano Unicore. Sono molto forti.
In Fantasmi rappi: «Voglio stare bene/Cambiare veramente/Per me è stato più facile per loro è differente»
Deriva dal mio vissuto. In Italia spesso o finisci la scuola e sei uno di quelli che studia, si laurea, trova un lavoro e riesce ad essere un dipendente, oppure sei uno come me che a una certa lascia la scuola perché vuole fare qualcos’altro, ma non sa che cosa. Io bene o male ho sempre avuto l’arte dalla mia. Disegnavo, dipingevo, facevo graffiti…ho sempre avuto una cosa a salvarmi da quella noia che ti cresce addosso quando vieni da un paesino. Quando nasci lì pensi di non avere uno sbocco. Non c’è niente da fare, quindi ti fumi le canne alla panchina. Io ho avuto la fortuna di sfogare la mia creatività in qualcos’altro. Chi non ce l’ha avuta magari è ancora su quella panchina.
Disegni ancora?
Sì, dipingo anche. Quella roba l’ho mantenuta per l’aspetto creativo del lavoro. Ho quelle 3/4 volte l’anno in cui passo un mese di fila a dipingere senza fare nient’altro.
Ci sono altri colleghi con la stessa passione? Sapevo di Caneda…
Credo anche Gemello.
Un lavoro sul linguaggio
In un’intervista ti sei detto contrario a eliminare le parole. Eppure siamo nel pieno di una fase che spinge molti a biasimare e ad elidere l’uso di parole come “troia” o “puttana” dai testi. La convinzione diffusa è che si debba partire dal linguaggio per cambiare le pratiche e lo sguardo sul mondo. Alcune esclusioni sarebbero dunque necessarie per migliorare le cose. Come ti poni a riguardo?
Anche quella è una soluzione. Non mi sono sentito di sceglierla perché non mi appartiene. Io sono dell’idea che il problema non sia la parola, ma il significato che uno le dà. Sono cresciuto senza odio. Non so nemmeno cos’è, l’ho eliminato dalla mia vita. Quando becchi un tuo amico e lo saluti dandogli del figlio di puttana lo stai semplicemente chiamando. È come “frà”. Se c’è odio dentro le nostre parole il messaggio cambia. Ma tolto quello, sono solo parole. Sono gli ignoranti che le hanno usate male. È un problema storico, che sto cercando di risolvere in un’altra maniera. È un lavoro lunghissimo, non sarò certo io a concluderlo in 20 anni di musica, ma ci metto del mio. Banalmente, il termine “frocio” ha una accezione puramente negativa. Ma perché questo? Quante volte me lo son sentito dire. All’inizio dava fastidio. Ma poi penso, nel 2021 ancora ad usare una parola del genere per sminuirmi? Non è un insulto. Perché devo esorcizzarla e farla diventare nemica?
Confronto tra i rap game
La scena italiana di oggi è davvero ricca e variegata, come non si vedeva da tempo. Cosa vi separa dal biennio 2015/16? La pandemia che impedisce di portare la propria proposta a un livello più completo?
No, secondo me nella scena 2015/16 c’era molta più unione, un comune obiettivo sostenuto da tutti. Nel raggiungerlo, le persone si sono sostenute a vicenda. Adesso si litiga per le briciole. Parlo per esperienza personale, quasi tutte le persone con cui ho iniziato poi hanno litigato tra di loro. Vedo che adesso c’è molta invidia. Quello che magari diventa famoso prima non si vuole portare dietro gli amici perché lo sono meno, comincia a farsi i cazzi suoi, gli altri ci rimangono di merda… adesso manca l’unione.
Domanda secca. Polka diventerà una saga in stile Veleno?
Non lo so. Spero di sì, sono ancora spaventato per quello che potrà succedere con la 2…