Villabanks: «In “El Puto Mundo” racconto la mia storia in più lingue»
Esce oggi El Puto Mundo, disco ricco di influenze franco-spagnole, decisivo per indicarci dove potrà posizionarsi Villabanks nel game
Il disco del giorno è El Puto Mundo, ultima fatica plurilinguistica che Villabanks ha sviscerato anzitutto per se stesso, per omaggiare il proprio background culturale e musicale e racchiudere tutte le sue ultime conquiste.
Capace come poche altre nuove leve di far parlare di sé tramite efficaci operazioni di marketing, il classe 2000 si era preparato bene il terreno. Aveva fatto molto discutere il caricamento del videoclip Kardashian su Pornhub, dopo che Instagram lo aveva censurato per le scene hard. Una mossa riuscita, che fece rimbalzare il suo nome un po’ dappertutto.
Ma con questo disco presenta al pubblico della massima competizione la propria musica, e non a caso – hype a parte – si è impegnato a mettere a punto una cornice capace di tenere fuori il piattume. Villa mixa non solo le lingue, ma anche gli stili, la knowledge francese, le chitarre di Pucho, le storie d’amicizia e l’entertainment che rivitalizza. Tutto questo condito da un’attitude che potrebbe davvero portarlo lontano.
Lo abbiamo incontrato per farci raccontare El Puto Mundo, formula che evoca atmosfere depalmiane e riassume lo stadio attuale dell’evoluzione di Villabanks. La lucidità e le idee chiare ci sono tutte, così come la voglia di concedersi più di un sorriso durante l’intervista.
Un aspetto interessante dell’album è il multilinguismo. Che rapporto hai con il rap italiano?
Non lo ascolto tanto. Giusto le realtà nuove che mi divertono, ogni tanto spuntano cose interessanti. Sento tantissimo rap francese perché essendo cresciuto lì è la prima lingua che ho incontrato. In casa parlavo un po’ di italiano con mia mamma, ma non lo masticavo, e quando sono arrivato a Firenze il rap di Milano non lo capivo. Era un po’ come per il francese parlato, lo parli ma non lo capisci. Ho fatto fatica all’inizio, e anche quando ho cominciato a capirlo un po’ di più avevo già troppa roba francese o americana nelle orecchie, come 50 Cent. Le cose italiane le sorvolo un po’, e il rap in generale non è la cosa che ascolto di più.
In Francia a quali artisti fai riferimento?
All’inizio a Disiz La Peste, il primo che ho visto, è un personaggio pazzesco. Poi tutto quello che si fa in Francia, tutto. Da Booba e Lacrim fino alla roba più melodica. Quando ero piccolo c’erano La Rue Kétanou, non saprei neanche definirli, bisogna capire che stile è quello lì. Mi piaceva molto anche Tryo. È un pre-rap, va verso l’hip hop ma ha più una ritmica afro.
E la nuova generazione?
Spacca quella roba. Anche se io ascolto musica molto tranquilla per i fatti miei. Però qualche pezzo “trapposo” ogni tanto ci vuole. Mi sta piacendo un sacco Freeze Corleone.
Che mi dici dell’urban in lingua spagnola? In Italia è sempre difficile farlo passare.
A me fa impazzire! Della roba domenicana adoro tutto. In quella mezza isola fanno tutti hit, rendiamoci conto. Il mercato mondiale è pieno di artisti domenicani. Dalla Spagna ascolto Kaydy Cain… poi C. Tangana, mi manda fuori di testa. Per il disco è stata una grande ispirazione, in quarantena l’ho ascoltato tanto e penso che si senta nel suono. Non ascolto la roba trap che fa, ma proprio quella più melodica.
Sei più su progetti come Idolo, Bien:(…
For Real. Mi salgono proprio le chitarre dietro, quelle cose lì mi fanno star bene.
Il pubblico apprezza te e gli artisti che ti sono più vicini (come Rosa Chemical) anche per il modo esplicito di trattare certi temi. Se domani ci fosse un botto mediatico importante, come ti regoleresti davanti a tutta quella esposizione?
Partiamo dal presupposto che io faccio hip hop. C’è libertà sui temi trattati, non stiamo facendo pop in cui dobbiamo contenerci e stare nei limiti di quello che può passare o meno. Io parlo di quello che voglio. Questa è la premessa, e penso non ci sia niente di male. Poi il 90% del mio lavoro quando scrivo un testo e provo a comunicare quello che ho dentro è riuscire a farlo capire. Perché non serve a niente che io dica qualcosa se non viene capita. Non serve a niente che io faccia una canzone con un messaggio profondissimo dietro se poi chi la ascolta percepisce tutta un’altra immagine di me e di quello che voglio dire. Quello è importantissimo. 3/4 delle polemiche alla fine sono dei malintesi e delle incomprensioni. Tutto quello che devo evitare, soprattutto quando sale la mia esposizione mediatica, è l’incomprensione. Lavorerò sempre di più per essere capito da tutti.
Quindi l’artista rimane l’ultimo depositario del messaggio dietro alla sua musica?
Abbastanza. Possiamo parlare di pezzi, di esposizione mediatica o direttamente di un messaggio lanciato tramite un social. Posso benissimo fare canzoni che non comunicano niente, va benissimo se ho voglia di fare la trappata divertente. Prendi Summer drip: non comunico niente, mi diverto. Comunica benessere, comunica che ci sono. Ma quando trasmetto qualcosa, che sia attraverso una canzone, adesso a te o in un post, è mia responsabilità farlo in modo comprensibile. Se vengo frainteso o do una versione di me che non voglio dare, è solo colpa mia alla fine. Io non posso giudicare me stesso. Qualunque cosa io faccia, se la gente dice che spacca vuol dire che spacca. Io posso dire che l’ho fatto con tantissimo impegno. Basta. Se dico una frase, posso dire di averla scritta con tanto impegno o a caso, non pensandoci; ma quello che la gente dirà è nelle sue mani. E non glielo puoi togliere. Tu devi a te stesso la possibilità di dirti un domani che quelle cose le hai scritte con i migliori intenti.
Due parole su una scelta controcorrente. I feat sono pochi, coerenti e intelligenti. Sarà così anche nei prossimi lavori?
Per prima cosa non faccio tremila feat perché faccio tantissima musica che voglio far uscire. Ci tengo molto a pubblicare, capisci? I feat sono qualcosa di più complicato in realtà. Per 20 pezzi che chiudo faccio 2/3 feat. Uno esce sul mio canale, uno su quello dell’altro. A livello di tempistiche mettersi insieme e trovare un tema che vada bene a tutti è difficile. Poi ci sono quelli che nascono un po’ così, o quelli – come nel mio disco – a cui teniamo e lavoriamo tanto per portarli a casa. Avevo bene in mente che feat portare in quest’album, cosa volevo comunicare. Sono strategici sotto molti punti di vista in realtà. Di Rosa (Chemical, ndr) sono un fan sfegatato, è troppo figo quello che fa. Dovevo lavorare con lui. Il feat si è fatto in quarantena, e dal post-quarantena in poi tutti hanno iniziato ad associarci per via della direzione che ha preso lui con l’album e del mio essere sempre più me stesso. Anche più curato nella musica, aggiungo. Finché le mie produzioni erano grezze e lui invece andava verso qualcosa di più curato ci associavano meno. Le cose sono cambiate nel momento in cui ho fatto uscire i primi pezzi in collaborazione con Tommaso Colliva, che dava un altro suono a tutto, un vero tocco di arte italiana. Quando quel suono esce dalla cassa mi accarezza il timpano in un altro modo. Mi fa godere. È la stessa cosa che Rosa ha preso dall’indie, è molto fan e cerca quella sonorità. Da lì in poi la gente ha cominciato a vederci più simili, anche se siamo l’opposto totale. È divertente perché il pubblico ha quasi anticipato il feat prima che arrivasse!
Qual è il ritornello del disco di cui sei più orgoglioso?
Todo. “Un altro disco inciso/ per qualche k ho visto il tuo altro viso/ e ci ha diviso/ ero pronto a tutto per te/ mi sono fatto il culo per questo”. Peso. Dice tutto.
Quanto ci hai messo a scriverlo?
Non ne ho idea. L’ho scritto e riscritto e riscritto e riscritto…
Qual è il brano che verrà capito meno dal pubblico?
Quelli erano due, e li ho già fatti uscire. Summerdrip e Zero Amour. L’ultimo va ascoltato in certe circostanze. Non è un pezzo che puoi mettere a tutte le ore del giorno. Lo ascolti o a fine serata da ubriaco o mentre stai scopando con la tipa. Son 4 minuti di pezzo, è una roba che deve trovarsi in una situazione particolare. Non è per tutti i giorni. Il mio pubblico, in parte anche giovane, poteva trovarsi meno in quelle situazioni lì durante la quarantena. Ero sicuro che sarebbe stato capito meno, ma solo per come è fatto e per i momenti che deve andare a riempire.
Cos’è che non vuoi diventare? Qual è quella cosa che ti fa già dire: “Io questa roba non la farò mai”?
Io devo essere espressione pura di quello che ho dentro. Al massimo. Deve esserci la mia essenza senza alcun tipo di filtro. Solo così riesco davvero a comunicare quello che voglio al meglio del meglio. Me lo devo. Non vorrò mai diventare qualcuno che fa cose al di fuori di quello che vuole fare. Non vorrò mai fare per lavoro o per promo qualcosa che non sono io. Se una canzone parla di un tema è perché avevo bisogno di farlo uscire. Non me ne frega niente se il tema va di moda o se è controverso e adesso non se ne può parlare. Poi ovvio, ci vuole sensibilità, bisogna farsi capire, ci vuole educazione nel trattare certe cose. Se muore George Floyd non te ne esci la settimana stessa dicendo determinate parole. Oppure la storia di Freeze Corleone in Francia, non te ne esci adesso con un pezzo sugli ebrei, perché ti linciano. È ovvio.
Chi ha rivoluzionato il modo di sfruttare l’hype in Italia?
Sfera (risponde secco, ndr). Chi meglio di lui ha usato i drop al momento giusto? Sono stati super attenti e meticolosi sulla sua carriera. Non lo conosco di persona, ma un progetto che in Italia mi ha stupito per quanto cazzo fosse perfetto era XDVR. Impeccabile dalla A alla Z. E io non ascolto rap italiano. Ma lui son due anni che non fa uscire un album ed è ancora in cima a tutto.
Quanto è difficile lanciare la propria musica nonostante la mancanza dei live?
Non lo so, non ce l’ho mai avuto. Quando sono uscito con il primo album ho smesso di fare live, per una mia decisione. Prima li facevo gratis, mi chiamavano e andavo. Certi pezzi però volevo aspettare prima di portarli live. Comunque non l’ho mai fatto, il mio tour iniziava il 7 marzo, il COVID-19 è arrivato in quei giorni lì. L’8 marzo quarantena totale. Non so com’è avere la spinta del tour, deve essere una figata, un sacco di belle città, belle persone… Non so poi se è più difficile. Adesso con tutte le robe che stanno uscendo le persone sono confuse, non sanno cosa ascoltare, è quel periodo in cui dicono «è un po’ tutto una merda». Ed è proprio in questi momenti che si apre l’opportunità per fare quel salto. L’ho visto quando è uscito Sfera, era quello. Quando sono arrivati gli FSK era quello. Lo senti proprio, che manca quella roba nuova nell’aria e poi BAM. Sempre. Ora c’è la possibilità per il pubblico di scavare nella musica che non cercano di solito, anche per la mancanza di live. Si può creare anche un nocciolo più duro di fan, che sentono che la musica è fatta per loro. I miei fan dall’inizio sanno come funziona.
C’è molto autocitazionismo nell’album.
Todo è quasi tutta autocitata. Ma a parte quello è anche il fatto di essere sempre più fedele a tutto quello che dico dall’inizio. La mia evoluzione è stare sempre più coerente con quello che faccio. Prima cantavo in francese e in inglese, poi ho aggiunto l’italiano, adesso sto imparando lo spagnolo. Vorrei anche allargare lo spettro delle lingue, non dico niente ma ci sto lavorando. Anche dal punto di vista del porno, sono sempre stato un fan. Il feat con Bello Figo l’ho fatto per Mi Faccio Una Sega. Io avevo 11 anni quando è uscito quel pezzo. Sai quante seghe mi facevo? Io sono fan di quel mondo lì, e arrivare fin qui, poterlo fare in un certo modo, è una soddisfazione grandissima, anche per il pubblico che mi segue da sempre. Non sto cambiando, sto evolvendo nell’ultima versione di me stesso, che sono dall’inizio.
Perché El Puto Mundo?
È un susseguirsi di cose abbastanza naturali. Il titolo è in spagnolo perché in italiano suonava male. “Il cazzo di mondo”. Brutto. El Puto Mundo è soave, suona proprio bene. È anche la lingua che sto imparando adesso. Anche se non la parlo al 100% e qualcuno potrebbe dire che qua e là è pronunciato male, ci ho lavorato tantissimo. Prossimo album nuova lingua. (sorride, ndr)
Si parla tanto del prossimo disco di Sfera perché dovrebbe esportare il rap italiano all’estero. E sappiamo quanto la nostra lingua si presti meno di altre alla sonorità urban per l’assenza di parole tronche. Alla luce del percorso che stai facendo sulle lingue, pensi di poter accettare anche tu una sfida simile?
Mah, sinceramente non mi voglio porre come portavoce di nessuno, sono solo una persona che ha bisogno di esprimersi. Oggi canto perché ne ho bisogno, ne ho voglia, mi chiudo in cabina e mi libero. Sprigiono tutte le cose che ho dentro. Dipingo. Mi fa un effetto simile, mi piace tantissimo. Anche il fare sesso, fare porno, è liberatorio. Che sia musica oggi, o altro un domani, deve essere me. Non è il rap italiano o la musica italiana. Sarebbe bellissimo elevare il rispetto per l’Italia nel mondo a livello di musica, ma quello lo faccio migliorando me stesso e basta. Contro di me ci sono io. Se comincio a pensare che contro di me c’è la Francia o altro partono meccanismi che portano a cosa? È marketing alla fine.
Qual è stata la cosa più difficile da buttare fuori in rima?
Sia Todo che Interludio. È il primo che ho scritto assieme a Zero Amour. Lì ho sentito scrivendolo che in pancia si muoveva qualcosa. Mi sono detto «Ci siamo». Interludio dice la verità e lo fa in modo molto sincero.