Indie

A Certain Ratio: il punk funk che non soffre mai di nostalgia. L’intervista

“1982” è il loro ultimo album: un titolo che non è un didascalico tentativo di evocare un passato da protagonisti del post punk ma anche un modo per esorcizzarlo

Autore Tommaso Toma
  • Il12 Maggio 2023
A Certain Ratio: il punk funk che non soffre mai di nostalgia. L’intervista

A Certain Ratio (foto di Paul Husband)

C’è qualcosa di inossidabile nelle band post punk / wave anni ’80 britanniche. Se non subentrano motivi di salute, gli eroi di quel decennio continuano a fare concerti di un certo rilievo e album che spesso non sono solo repêchage di vecchie idee. Abbiamo appena goduto a Milano del ritorno sul palco di Siouxsie e viene in mente l’ottimo lavoro di scrittura fatto dai coetanei Depeche Mode da Richard Butler degli Psychedelic Furs.

Ascolta 1982 degli A Certain Ratio

Il revival della meglio gioventù post punk

Tra pochi giorni, il 20 maggio, in California, a Pasadena si terrà un oramai affermato mini-festival con tanti dei protagonisti di quella scena, dalla già citata Siousxie a Iggy Pop, da Billy Idol ai The Human League. Ci saranno anche addirittura i Love and Rockets, che fu il bellissimo side project degli ex componenti dei Bauhaus, e i Gang of Four, che sono sempre stati molto vicini agli A Certain Ratio.


In effetti ci avremmo visto benissimo nel bill del Cruel Word festival anche gli A Certain Ratio, che dal vivo spaccano ancora. Ma ascoltando il loro nuovo album, 1982 (Warp /Self), uscito da qualche mese, ti accorgi che gli A Certain Ratio (che ancora ruotano attorno ai fondatori Donald Johnson, Jez Kerr e Martin Moscrop) hano saputo rigenerare la propria cifra stilistica sempre ricca di groove e impulsi tribali. Anche grazie a un ottimo lavoro di produzione e alla presenza di giovani guest come il rapper Chunky e la bravissima cantante Ellen Beth Abdi.

Abbiamo parlato con Martin Moscrop, che con la sua tomba e la sua chitarra ha saputo imprimere un taglio peculiarissimo al sound degli A Certain Ratio.


L’intervista

Questi ultimi anni sono stati molto effervescenti e fruttuosi, musicalmente parlando. Avete pubblicato dell’ottimo materiale: qual è il segreto di questa eccellente fase artistica?

Siamo stati sempre molto attivi. Non abbiamo davvero smesso di registrare cose dal 2018. Tutto è iniziato dopo che abbiamo firmato per Mute Records e ci hanno fatto fare un rework del brano I’ve Got Clothes di Barry Adamson. Dopodiché ci è stato immediatamente chiesto di fare di altre rielaborazioni. A quel punto abbiamo pensato: “Perché non pensare a un nostro nuovo album?”, e così abbiamo iniziato a registrare.

La Mute ci chiese di includere due nuove canzoni nella compilation ACR Set. Ma noi eravamo praticamente già pronti con un set di canzoni proprio per un nuovo disco che abbiamo presentato alla Mute. La reazione fu ottima.

Dopo aver pubblicato ACR Loco nel 2020, abbiamo continuato a registrare, e oggi siamo fuori con 1982. Ma non ci fermiamo mai, perché mentre siamo fuori con questo disco tra poco entriamo in studio – a giugno – con Dan Carey!


Il 1982 fu anche l’anno di uscita del vostro bellissimo Sextet: sono passati 40 anni, un tempo considerevole. Perché questo suono dei primi anni ’80 attira ancora così tanto e così tante band citano te e l’intera scena post-punk come riferimento?

Il 1982 fu davvero un buon anno per noi. Pubblicammo due album, Sextet e I’d Like to See you Again. Ma non è questo il motivo per cui abbiamo chiamato il nuovo album 1982. E non ci piace tornare al passato, ci piace pensare al futuro.

È abbastanza casuale che l’album si intitoli così, è tutto merito dalla title track. Quando eravamo in fase di realizzazione del pezzo mi sono messo a cantare con il vocoder e, per capire se stesse funzionando davvero, ho cominciato a dire al microfono “1982”.

Quando stavamo pensando a un titolo per l’album, abbiamo pensato che 1982 sarebbe stata una buona scelta, dato che quei numeri stavano bene insieme anche pronunciandoli!


Quel suono dei primi anni ’80 piace ancora a molti giovani musicisti/producer. Fu merito anche della rinascita del punk funk intorno al 2001, quando ci siamo accorti che il nome della band iniziava a circolare nuovamente a New York.

Non ci vediamo davvero come un gruppo punk funk ormai. Ci vediamo più come una band matura che ha imparato a suonare le cose che stavamo cercando di suonare nei primi anni ’80, e siamo diventati bravi a farlo.

Possiamo suonare qualsiasi tipo di musica che vogliamo ora, quindi ci piace molto quell’aspetto di essere musicisti senza limitazioni. Non abbiamo mai smesso di imparare. Potremmo essere tutto ciò che vogliamo essere in questa fase della nostra carriera. La cosa importante per noi è fare buona musica e godersela.

Latitle track e Holy Smoke sembrano avere un sound di quegli anni. Quali sono gli album di quel periodo che ti ispirano ancora?


Holy Smoke non è in realtà ispirata alla musica dei primi anni ’80. Piuttosto ci troviamo tracce da un certo tipo di musica anni ’70 che ascoltavamo negli ’80 (ma lo facciamo ancora adesso). Tutta la roba funk come The Bar-Kays, Tower of Power, Ohio Players e The Commodores.

Abbiamo optato per quel tipo di suono funk ’70 anche perché Donald Johnson è cresciuto con quel tipo di musica, avendo due fratelli maggiori che erano musicisti. Poi sai, nei primi anni ’80 ascoltavamo gli Azymuth, Airto e Flora, tanta musica brasiliana, il Miles Davies elettrico. Eravamo affascinati dalle nuove produzioni di elettronica, cose come Man Parish, la italo-disco, e e cominciava a circolare il primo hip hop.

A proposito di jazz e dintorni, Tombo in M3 mi ricorda il sound che circolava alla fine degli anni ’90, quando emerse una scena nu jazz molto forte. Ci sento dentro certamente Herbie Hancock e Miles Davis, ma anche i Jazzanova e tutta quella scuola tedesco-austriaca della fine degli anni ’90.

Vero, l’ispirazione principale per Tombo in M3 è arrivata dagli ascolti di Airto Moreira, un percussionista brasiliano che ha suonato con Miles Davis e molte altre persone. È anche fortemente ispirato dal sound degli Azymuth e contiene anche tocchi di Miles Davis.


La traccia in realtà è iniziata come una jam in un soundcheck in uno dei concerti in cui Matt Steele, il nostro tastierista, stava suonando il riff di tastiera in 7/4 e Donald si è unito a lui. Abbiamo registrato la jam sui nostri iPhone e quando siamo entrati in studio abbiamo iniziato con quell’idea di base.

Matt è un tastierista straordinario e può suonare qualsiasi cosa tu voglia che suoni. Puoi dirgli: “Matt, suona qualcosa nello stile di Airto o Hermito”, e lui suonerà questi fantastici riff di tastiera. È una grande forza creativa per dare il via alle idee e ha funzionato molto bene su questa traccia.

Adoriamo Jazzanova – che si sono ispirati a questi maestri – e oggi la scena jazz è decisamente viva, dall’Australia al Regno Unito.

Afro Dizzy è un’altra dichiarazione d’amore all’Afrobeat. Quando e come avete scoperto quel suono?


Ha preso forma dal meraviglioso drumming di Tony Allen ed è stata scritta nella settimana in cui Tony è morto. Abbiamo sempre avuto il desiderio lavorare con lui, ma quando è morto ci siamo resi conto di quello che si siamo persi.

Nel brano c’è un sample della batteria di Tony nella settimana della sua scomparsa e da lì è nata Afro Dizzy. Una volta che la musica era stata completata per il brano, abbiamo pensato che sarebbe stato davvero bello avere come voce femminile Ellen Beth Abdi, degli Agbecko di Manchester.

Lei ci ha mandato alcune idee per la parte vocale, solo canticchiando melodie, e poi l’abbiamo invitata in studio. Lavorare con Ellen ha funzionato davvero bene, quindi abbiamo continuato a registrare altre canzoni con lei.

In realtà sono cresciuto in Sud Africa, i miei genitori sono emigrati lì quando ero giovane, e mi piaceva ascoltare la musica sudafricana quando ero adolescente, lo faccio ancora. Mi piace il genere amapiano sudafricano, quindi aspettati una traccia in quello stile con gli A Certain Ratio in futuro!


Cosa ne pensi invece della nuova scena britannica che si autodefinisce post-punk di band come Black Country, New Road, Squid o Dry Cleaning?

C’è così tanta buona musica nel Regno Unito al momento… Abbiamo suonato al We Out Here Festivaldi Giles Peterson per i primi due anni, e l’anno scorso ho fatto il DJ. La quantità di eccellente jazz britannico è stata fonte di ispirazione.

I The Comet Is Coming sono stati strabilianti, la cosa più cosmica che abbia visto da anni. La First Word Records ha tenuto un palco lì l’anno scorso e Werkha ha suonato dal vivo ed è stato eccellente. Lui ha aperto molte nostre date.

È vero che scopriste l’accordatore per chitarra grazie ai Talking Heads durante il loro primissimo tour nel Regno Unito? Cosa ricordi di quel breve ma intenso tour?


Sì, è vero… Quando andammo in tour con i Talking Heads nel 1979 non avevamo mai visto prima un accordatore. Eravamo soliti accordarci l’uno con l’altro e alla fine ci accorgevamo di essere sempre leggermente scordati.

Tina Weymouth accordava le nostre chitarre per noi prima che continuassimo a usare il loro stravagante accordatore stroboscopico. Penso che sia stato subito dopo che abbiamo comprato il nostro primo accordatore per chitarra. A quel punto erano diventati più in linea tutti quanti!

Il tour dei Talking Heads fu una cosa fantastica e ci insegnò molto su cosa significasse essere professionali. Penso che ci abbia anche fatto capire per la prima volta che eravamo essenzialmente degli artisti ed eravamo lì per intrattenere piuttosto che essere solo “strani”, isolati, senza voler cercare di andare d’accordo con il pubblico.

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