Casino Royale: Alioscia Bisceglia racconta CRX
Il capolavoro dei Casino Royale è uscito in un’edizione celebrativa per i suoi 20 anni. Riascoltandolo il tempo non sembra passato e tutta la lungimiranza della band è raccontata qui da Alioscia Biseglie
Il capolavoro dei Casino Royale è uscito a novembre in un’edizione celebrativa per i suoi 20 anni di vita e c’è in aggiunta un secondo CD con le cover di Ora / Solo Io Ora fatta da Levante e di Là Sopra Qualcuno Ti Ama eseguita da Edda dei Ritmo Tribale. Ci sono anche i remix di Fabrizio Mammarella, Tommaso Colliva, Max Casacci & Ninja, Opus 3000, Ralf, Mass Prod e Paolo Baldin. Riascoltando però gli originali il tempo non sembra passato e tutta la lungimiranza e il coraggio della band per realizzare CRX è meravigliosamente raccontata qui da Alioscia Biseglie. Buona lettura!
Gli anni ‘90 hanno rappresentato la golden age dei Casino Royale, chiusa con l’uscita dell’album CR-X. Era il nostro decimo anno di attività: ecco perché nel titolo la X va letta come numero romano, dieci. Il valore seminale di questo progetto lo stanno decretando gli altri. Racconto solo che quando lo abbiamo presentato alla nostra etichetta uno dei discografici ci disse dopo averlo ascoltato: “Il miglior disco italiano del 2007”. Il difficile passaggio dal cantare in uno pseudo-inglese all’italiano ha tessuto la trama e l’ordito di un rapporto vivo tra noi e il nostro pubblico, un tessuto connettivo che ha continuato a rigenerarsi come fosse materia umana viva sino ad oggi.
Ricreare “il suono dei miei simili”
Nuotavamo in un’Italia dove da una parte avevamo il pop italiano di scuola “Cecchettiana” e alle spalle una pesante eredità cantautoriale, da noi mai digerita e sentita propria in quanto figli di fenomeni internazionali qui catalogati come “mode”: la new wave e il post punk.
Musicalmente ci consideravamo dei bastardi musicali, figli di tantissimi padri ma senza padrini nei posti che contano. C’eravamo ricavati un piccolo spazio di visibilità nella scena mainstream italiana perché diversi. Eravamo comunque settati con un fuso orario che non era quello italiano. Eravamo passati dall’essere un gruppo indipendente a un gruppo major che pretendeva ed esigeva una forte indipendenza artistica.
La chiave di questo relativo successo era l’empatia con una parte del contesto, quello che riconoscevamo come a noi simile, da qui il claim “Il suono dei miei simili” utilizzato per lanciare il disco. Ci è sempre piaciuto scherzare con il fuoco e per gli integralisti dell’underground flirtavamo troppo con il mainstream, al quale apparivamo sempre troppo ingombranti con la nostra attitudine.
Non eravamo i soli ad aver intrapreso questo percorso che puntava più in alto ma il nostro era un caso a parte nello scenario italiano delle band: non eravamo portatori di mediterraneità, non avevamo fondamenta nella tradizione popolare, non eravamo dei cantori ribelli avvolti nella bandiera rossa e non potevamo essere scoperti e spinti da qualche penna importante che poi se ne sarebbe fatta vanto perché esistevamo da dieci anni.
Eravamo vogliosi di un cambiamento di espressione nella musica italiana, determinati nell’esprimere la nostra identità che passava attraverso forme di stile legate al suono alla comunicazione e ai contenuti culturali e alle riflessioni che si possono trovare in qualcosa definibile come “sottocultura”.
La band era una vera band di milanesi, ma di “milanesi anomali” – gente di estrazione sociale differente, gente che arrivava a Milano dalle province del Nord e del Centro Italia, gente che si era incontrata in contesti alternativi dove andava a cercare bolle di suono diverso in cui respirare e spazio dove esprimersi facendo musica. Una Milano in cui i “posti occupati” erano ancora isole anomale dove potersi incontrare e stare vicini, tutti noi con i nostri mille casini e il nostro bisogno di sentirci diversi e normali in un contesto dove spesso la cosiddetta “gente normale” ci puntava il dito contro. Avevamo già quasi dieci anni di attività alle spalle: lo ska della metà degli anni ‘80, il crossover di stili di matrice black dei primi ‘90 e la contaminazione “bristoliana” di metà ’90 che aveva preparato il terreno per un atteso e auspicato salto di qualità nelle vendite.
Un disco è fatica, tanta fatica sopratutto di testa. Va bene che tra i venti ed i trenta hai l’energia per spaccare tutto e sei spesso in simbiosi naturale con una massa critica che si identifica in te (e in cui tu ti identifichi), ma per tenere l’andatura una volta preso il vento in poppa devi sforzarti di essere in maniera innaturale per una persona: creativo ogni due anni, e se conti che almeno un anno e mezzo lo passi con la testa in tour ogni volta che esce un disco non ti rimane molto tempo in cui vivere la vita, osservarla, analizzarla, farci delle riflessioni e risputarle in musica.
La nostra vita a Milano era un fantastico caos. Dovevamo andare via dalla routine – la solita nostra super incasinata routine fatta di convivenza coatta tra noi, tra noi e le nostre fidanzate – e sopratutto non volevamo ascoltare i sussurri di chi ci chiedeva di smussare qualche nostro angolo per arrivare al “vero” successo commerciale. Cerchiamo una comfort zone dove rifugiarci e andiamo nella nostra città di adozione, l’amata Londra…
London Calling
Siamo ospiti a pagamento di un’amica di un’amica di origine giamaicana. Sbagliamo fortunatamente zona e planiamo in furgone con un mare di provviste a East London. Quella che ora è una zona super trendy era nel 1996 una sorta di ghetto dormitorio, con poche attività commerciali, vissuto da una comunità working class di bianchi e un mix di indiani e neri afro-caraibici: Leytonstone.
Il quartiere ci accoglie con la sua “crudezza”. Tutti quelli con cui facciamo amicizia ci domandano come mai siamo finiti lì e a fare cosa. Noi rispondiamo: vibeing. Restano perplessi, in molti vorrebbero andarsene da quella zona – come dargli torto? – perché qui non siamo nella pittoresca Notthing Hill o a Camden.
La nostra nuova casa diventa rifugio per amici, cugini e parenti di Pauline, che ci ospita. Sono incuriositi e sorpresi, apprezzano il nostro interesse verso la loro cultura e ci riconoscono sorpresi un certo stile, sono aperti a condividere il loro know-how e mettono in mostra il loro talento. Bola e Trevor vivono praticamente con noi ci accompagnano nel processo creativo, rappano sulle nostre basi e si confrontano con noi sulla scrittura. Un giorno arriva Tony, il più rude boy di tutti, una sorta di capo famiglia. Fa il muratore con tanto di furgone e gira con un pitbull, sta un po’ lì, ci studia e afferma: «Mi ricordate un gruppo di un po’ di anni fa, gli Specials». Per noi suona come una benedizione, poi aggiunge: «Uno di quei gruppi di bianchi che copiava tutto dalla musica dei neri» – il quadro per lui è chiaro.
Drum N’ Bass e marijuana
Usciamo spesso per respirare l’aria della città, andiamo alle serate di James Lavelle e di Metalheadz al Blue Note in una decadente Hoxton Square, ascoltiamo le radio pirata di East London: nulla ci riporta alla nostra provincia sonora italiana. Campioniamo dischi e componiamo beat, buttiamo giù scenari sonori, immagini scritte e cerchiamo parole chiave. Ascoltiamo tanta musica insieme, cuciniamo italiano bevendo il vino portato da noi, la birra dell’off-licence e fumiamo l’erba comprata da Togetherness, un negozio di dischi gestito da Buzzy Bee, storico produttore jungle dell’epoca.
Non vogliamo che l’incantesimo si rompa. Abbiamo solo un cellulare, uno dei primi costosissimi cellulari la cui bolletta al ritorno ammonterà a qualche milione di vecchie lire. Durante questa “session creativa” eravamo solo in cinque, però ci riuniamo con il resto della band per un programma in diretta europea a MTV. Siamo la prima band italiana a mettere piede nella sede di Camden e a suonare dal vivo. La conduttrice storpia il nome della band ma poi il resto va tutto per il meglio: bella performance, sembra che il vento soffi dalla giusta parte. Con noi anche Lorenzo Barassi LNZ, il nostro fotografo storico, e Claudio Sinatti salito a Londra per girare materiale video. Facciamo festa a casa dopo l’esibizione e il nostro manager viene portato via dai “bobbies” perché trovato con dell’erba in tasca. Si erano fermati sul London Bridge perché uno di noi ubriaco doveva sboccare.
Il ritorno. Il sound si delinea
Quando rientriamo in contatto con la nostra vita milanese esplodono spesso tensioni, prevalentemente legate alle relazioni di coppia. La distanza non aiuta e anche la lontananza mentale provocata della full immersion londinese peggiora la situazione. Una delle nostre compagne è rimasta incinta e qualcuno deve decidere che strada prendere.
Abbiamo un tot di materiale grezzo e ci trasferiamo quasi subito in una bella e freddissima casa nella grigia campagna vicino a Varese, “La Novella”. Grigio a Milano, grigio a Londra, grigio a Varese. Si stava definendo il cromatismo giusto nella palette dei colori per CRX e si stava delineando anche il sound: profondo, minimale, complesso, onirico, asciutto e viscerale. In veste di produttore e fonico c’è Tim Holmes, conosciuto mentre lavorava agli Orinoco Studios di Londra durante il mix del nostro precedente album Sempre Più Vicini.
Continuiamo a scrivere, cantiamo, suoniamo, rifiniamo i brani. Siamo tutti lì ancora una volta insieme e ci scambiamo letture e racconti sulle nostre vicissitudini che sembrano circondarci da fuori. Dentro, nella bella casa del varesotto, stiamo bene – ma non tutti. Circola tra noi tanta fragilità e sensibilità che rende alcuni vulnerabili. Viviamo aspettative e timori. Per noi fare un disco significa metterci a nudo. Ci fanno visita i discografici: sorrisi, toni amicali, cene pagate dalla label, ma il sospetto è che non abbiano molto chiaro da che parte stiamo andando, o meglio, non lo capiscono e sembrano preoccupati.
A Londra di nuovo. Con i Chemical Brothers
Ritorniamo a Londra per il mix finale agli Orinoco Studios. Lì troviamo due tipi un po’ strani, dei mezzi nerd che hanno un loro piccolo covo pieno di sintetizzatori. Ci invitano alla loro serata che si chiama Heavenly Sunday Social, beviamo Guinness, assaggiamo qualche caramella offerta da loro e stiamo bene. Nella lounge dell’Orinoco ci insegnano tutte le combinazioni di tasti per fare i numeri giocando a Wipeout sulla Playstation. Uno dei loro brani è nella colonna sonora del gioco e a volte passa a trovarli il loro manager con mazzi di fogli di royalty.
Il nome del loro progetto è Chemical Brothers: ecco perché quelle caramelle ci facevano stare bene. Mixiamo tutto e andiamo a fare il master in un mega studio di cui non mi ricordo il nome, ma ho chiaro il ricordo di una foto di Carla Bruni in bianco e nero che mostrava il suo fantastico culo.
CRX è pronto: ma per tutti?
Mandiamo il master alla Polygram e restiamo in attesa di un loro feedback. Noi siamo un po’ confusi siamo troppo coinvolti: lì dentro c’è tanto di noi, dai nostri ascolti alle immagini più intime delle nostre crisi alle tragedie che aveva passato di recente l’Europa come la guerra della ex Jugoslavia. È un continuo mix di emozioni e riflessioni dei nostri io. Oltre ai timori c’è comunque voglia e determinazione nel non mollare in tutti i sensi. Andiamo avanti con la nostra vita che è questo progetto, anche a denti stretti.
Arriva il feedback da Milano e in sintesi suona così: “Bene ragazzi, ma dovreste ritornare in studio e fare altri due brani un po’ più facili”. Restiamo increduli, anche perché siamo nel 1997 e per noi l’indipendenza artistica è irrinunciabile. Il nostro manager inveisce verso chi gestisce questo mondo in questo modo e rispondiamo: «Ok, facciamo un comunicato stampa in cui rinviamo l’uscita del disco e spieghiamo che ci chiedete di fare dei pezzi più facili. Non è un buon inizio, piano piano andiamo in paranoia e alla fine io e Pardo, che tanto aveva spinto nel progetto, ci incontriamo nei giardini di Via Solari per accusarci a vicenda da una parte di aver fatto un disco troppo minimale e asciutto e dall’altra di aver scritto testi troppo scuri e negativi.
Il lancio, con gli U2
La storia continua con il lancio del disco, (senza nessuna aggiunta di brani “facili”) e una performance di proiezioni urbane sui edifici chiave della città, gli U2 che ci scelgono per aprire i concerti del PopMart Tour, dove ci troviamo a fronteggiare una marea umana rock-oriented con una scaletta di brani dal sound per clubbers, è una tournée nei palazzetti con tanto di tour bus sequestrato a Policoro e l’arresto di tutti i tecnici per possesso di marijuana e altro, crolli psicofisici dei più deboli e mascelle strette degli altri sempre a testa bassa nell’andare avanti. Più di una volta abbiamo evocato in quel periodo un episodio della saga del fumetto Kebra intolato: “La Maledizione dei Rockers”. Il resto della storia è storia ai più sconosciuta e di poca importanza, dove ognuno ha preso la strada a se più consona. Questo disco ci ridà tanto in questi giorni in cui compie vent’anni, leggendo i commenti della gente ci rendiamo conto di cosa abbia rappresentato: molto più di un disco, molto più del “miglior disco italiano del 2007” uscito nel 1997. Per tanti rimane uno dei dischi più amati anche nel 2017. È questo il successo vero, vero?