Il 2021 si è rivelato un anno particolarmente felice per la musica. Certamente lo è stato in Italia. Diversi tra i migliori autori del nostro panorama sono finalmente tornati “liberi” di dire la loro, magari dopo averci lavorato a lungo. E adesso questi regali, ostacolati e ispirati insieme, da un tempo e da uno spazio improvvisamente dilatati, ci aiutano a fare il punto. A tirare le somme, ma anche a guardare lontano.
Sono così le nuove canzoni di Giorgio Poi, che raccontano anch’esse di “un anno da pescecane” in cui abbiamo sognato “strade gelate e baci con labbra spaccate”. Un anno in cui abbiamo immaginato il profumo del mare e ci siamo divertiti a seguire con la mente i dettagli di una fuga liberatoria, per poi scoprire che la persona fuggiva proprio da noi.
Gommapiuma ha questa intensità spugnosa, che si può strizzare per tirare fuori il vissuto di cui è intrisa. Giorgio Poi ritorna con la delicatezza, e il “sentimento del contrario” che gli sono propri. Parlando di sé, ma volendo dire noi. L’intervista completa è sul prossimo numero di Billboard Italia.
Inizierei parlando della Gommapiuma come titolo-metafora. Si tratta di un materiale spugnoso, qualcosa che assorbe per poi restituire. Anche il tuo disco è così?
Il titolo Gommapiuma è nato dall’idea che la scrittura del disco abbia avuto per me la funzione di attutire il duro colpo di questo periodo di pandemia, assorbendo la mia attenzione. Quindi gommapiuma era una parola che in qualche modo poteva accomunare tutte le canzoni. Però sono d’accordo anche con l’idea che, dopo l’assorbimento, queste canzoni si prestino ad essere “strizzate” per restituire, filtrata e in altra forma, l’emotività.
Sono “solo” 8 i pezzi del disco, ma in ognuno sento il desiderio che tutto quanto suoni necessario e vicino al cuore dell’ispirazione. Sei d’accordo con questa impressione? Se sì, quanto lavoro c’è dietro alla nitidezza del risultato finale?
Moltissimo. È il mio disco al quale ho lavorato di più. Quello su cui davvero non mi sono risparmiato. È come se per riuscire a trovare una qualche forma di soddisfazione personale, di buon umore se vuoi, in questo periodo così strano, avessi bisogno di spostare l’asticella più in là rispetto a tutto quello che avevo fatto prima. Ero più difficile da accontentare innanzitutto come ascoltatore. Sicuramente più critico e più severo con me stesso rispetto al solito. Non è stato solo un lavoro di cesello, ho usato anche l’accetta, nel senso che molte cose, contrariamente a come mi comporto di solito scrivendo, le ho buttate via. Un lavoro di selezione accurato.
Il rischio qual era? Dire troppo? Dire tante cose insieme come si tende spesso a fare in questo periodo?
Diciamo che volevo ci fossero degli spazi tra una parola e l’altra, tra un suono e l’altro. E mi piaceva l’idea che prima di queste pause ci fosse una frase di senso compiuto, chiara almeno per me. Avevo bisogno di lasciare all’ascoltatore lo spazio per assorbire i diversi momenti di cui sono fatti i singoli brani. È stata una scelta anche questa.

Si può dire che in qualche modo anche l’ascoltatore è invitato ad essere anche lui un po’ gommapiuma, a dialogare intimamente con i pezzi?
Parlo molto sinceramente nel disco. Sono stato attento ad esprimere le cose nei termini più onesti, desidero piuttosto dire cose vere, che dire cose straordinarie a tutti i costi. E volevo che i pezzi avessero una loro chiarezza, che magari si rivela dopo qualche ascolto. Però credo che accada più o meno sempre, che in genere sia necessario qualche ascolto per metabolizzare.
Si è vero, ma in questo caso ogni canzone sembra dire “stanno accadendo cosa importanti, fermiamoci un attimo a pensare”…
Non è che avessimo scelta, ci siamo dovuti fermare tutti. Conveniva a quel punto sfruttare l’opportunità e penso che molti lo abbiano fatto.
Queste canzoni però fanno pensare, adesso. Ti instillano una sensazione di domanda aperta e ti invitano anche ad uno sguardo interiore. L’ho pensato già con I Pomeriggi, che è stato il primo singolo ed è molto rappresentativo della sostanza poetica dell’album…
Piace anche a me pensarlo in questo modo. È un brano che musicalmente potrebbe apparire un po’ diverso dagli altri, perché è più veloce, però a livello testuale è in piena linea col resto.
Giorni Felici, altro pezzo scelto come singolo, è anch’essa, anche se in modo diverso, una canzone rappresentativa. A cominciare dalla copertina del singolo, che ha gli stessi colori del cielo sulla cover dell’album.
La copertina del disco è di Zuzu, ed è tratta dalla sua graphic novel che ha lo stesso titolo del pezzo. Invece la copertina dell’album è di Gio Pastori. Quando ho incontrato Zuzu, mi ha raccontato la storia del libro che stava scrivendo e mi ha detto il titolo. Da quel momento la canzone, che avevo iniziato a scrivere, ma che si era come arenata, ha ripreso vita. Ho capito che sia il mio pezzo, sia la sua storia parlavano di una fuga. E da lì è nata l’idea di dare alla canzone lo stesso titolo del libro che in qualche modo l’ha ispirata.
La collaborazione con Zuzu mi fa venire in mente che c’è sempre dell’ironia nei tuoi pezzi. Sei d’accordo?
Assolutamente sì. Mi piace mescolare leggerezza e cazzate con altre cose che invece per me hanno un peso, combinare insieme questi due diversi elementi.
Ancora a proposito di dialogo, sono sorprendenti l’amalgama fra le voci e la naturalezza interpretativa del duetto con Elisa. Ascoltando il risultato finale non ti è venuta finalmente voglia di scrivere anche per altri?
Da un lato sì, però finisce sempre che quando scrivo qualcosa, ho anche voglia di cantarla, anche quelle destinate originariamente destinate ad altri. Poi chissà, in futuro… non si può mai sapere.
L’album ha un suono rotondo, carezzevole, però la tua voce conserva le sue asperità consuete. Anzi, questa volta il cantato mi sembra più incisivo che in passato. Come hai lavorato sull’interpretazione dei pezzi?
Ho asciugato moltissimo. In sala di incisione la voce non è stata doppiata, o comunque è stata lasciata in evidenza la linea principale. L’effetto è quello di una voce scoperta, che ti si avvicina a parlarti direttamente.
Anche i suoni sono stati concepiti allo stesso modo?
Sì. La chitarra, quando c’è, è una sola, il basso non è stereofonico. La complessità sta solo nel quartetto d’archi, che non funge mai da semplice sostegno armonico, ma ha una vita sua propria, con voci diverse che si muovono al suo interno.
Dalla goliardia surreale un po’ british di Fa Niente sei passato alla scrittura più itpop di Smog. Questo nuovo disco mi sembra fra i tre quello con una risonanza emotiva più universale. Sei d’accordo?
Quando si scrive un disco, non si parla mai solo del periodo che si sta vivendo nel momento in cui le canzoni nascono, ma anche di quello che è successo prima e di ciò che magari succederà. E certamente non solo a chi scrive ma a tutte le persone che si potranno magari riconoscere in un dato racconto. Proprio perché si parte da una esperienza particolare, essere universali è un’inconfessata speranza. Anche per non sentirsi troppo soli.