La ricetta musicale unica dei The National
“Sleep Well Beast” dei The National è stato proclamato Best Alternative Music Album ai Grammy Awards nell’anno concluso sotto il segno del trumpismo più spinto. Quasi un contrappasso per chi abbinò una canzone di un repertorio agli inizi a un volto come quello di Barack Obama nel 2008
L’intimità servita fredda presso il buffet dei Grammy Awards 2018 porta un’etichetta che più americana non si può. “Americana” nel senso più trasversale del termine: culturale e musicale, ulteriore ramo evolutivo di ciò che nacque dai poli opposti del country da ballo e del blues più torvo. Insomma, le lontane radici messe alla prova dal tipico modernismo stelle e strisce nel rendere pop-ular ogni forma promiscua. Sopra quell’etichetta c’è scritto The National, band dalla solida reputazione, premiata in occasione del settimo lavoro in studio intitolato Sleep Well Beast, proclamato Best Alternative Music Album nell’anno concluso sotto il segno del trumpismo più spinto. Quasi un contrappasso per chi abbinò una canzone di un repertorio appena agli inizi a un volto ad elevato potenziale come quello di Barack Obama nel 2008. È infatti l’ex presidente nero il “Mr. November” (mese delle elezioni USA, brano che risale al 2005 nel quale inneggiano: I’m the new blue blood / I’m the great white hope – Io sono il nuovo sangue blu / io sono la grande speranza bianca) immortalato su t-shirt dedicate alla raccolta fondi.
Però no: i The National non suonano vecchi classici, non sono un gruppo politicizzato in senso stretto, non vivono di slogan. Non si avrebbe altrimenti a che fare con l’intimità di un’alchimia originale, diversa, forse unica alle soglie del mainstream, già solo per come si compongono e si comportano i nostri.
Aaron e Bryce Dessner sono fratelli gemelli, istruiti in chiave rock dalla sorella maggiore Jessica, feroce appassionata dell’ondata rumorosa di inizio anni ’90 tra i Pixies e le Breeders. “Quando si confrontano, parlano una lingua tutta la loro tra monosillabi, gesti e termini incomprensibili”, chi lavora al loro fianco parla in sostanza di un codice un po’ genetico e un po’ artistico, entrambi chitarristi e architetti armonici: Aaron guida, firma i pezzi; Bryce è il controcanto, l’uomo dei dettagli che hanno fatto progressivamente crescere i The National. Sono arrivati ad avvalersi stabilmente dell’apprezzato violista australiano giramondo Padma Newsome fino a un folto corollario di strumentisti che pervadono, senza invaderle, quelle che in fin dei conti sono le migliori grintose ballate gospel in circolazione.
Bryan e Scott Devendorf sono semplicemente fratelli, mente e muscoli, ossia la sezione ritmica. Polistrumentista e sperimentatore il primo, rotondo e percussivo il secondo. Cosa che racconta in parte il lato oscuro del suono della band, ancestrale eppure capace di catturare pubblico su larga scala.
Il merito è, come da storia dei manuali di musica contemporanea, anche del caratteristico tratto vocale del frontman Matt Berninger, un personalissimo ibrido tra gli scavi classicheggianti di Nick Cave e le giostre nonsense di Morrissey. Un tratto in grado di personalizzare il cocktail, infine micidiale e decisamente irresistibile per il pubblico adulto, in direzione barocca. L’intimità di cui sopra non è però intimismo, come il barocco non è classicismo. È qui, nell’attualizzazione del tutto, che i The National hanno fatto saltare il banco: non sono nuovi, non sono vecchi, non sono di nicchia, ma non sono neanche per tutti.
Precisazione: sarebbe ingiusto attribuire al cantante tutti i meriti, anche perché il rock delle icone è progressivamente seppellito insieme ai resti del grunge. C’è però da ammettere che il biondo-barbuto-spilungone (al suo apice nel decorato 2017 con l’interpretazione del brano trainante The System Only Dreams in Total Darkness) ha dalla sua una robusta sopportazione per tutte le querelle di una vera e propria famiglia allargata. Perché i The National nascono e vivono proprio sui giochi di parentela, fino a coinvolgere la moglie e il fratello dello stesso Berninger nella stesura e nella realizzazione dei due documentari che fin qui raccontano il dietro le quinte del gruppo. “Non c’è granché di autobiografico nei testi e nel loro mood”, raccontava Matt quando invece disse di esprimere se stesso nel progetto parallelo EL VY nel 2015. Un po’ come nella prima pellicola che racconta in presa diretta le fatiche del primo tour mondiale dopo il successo di High Violet, disco con il quale avviene il salto di livello per quanto riguarda la cura del suono National, tra patinature alla Depeche Mode e collaborazioni indipendenti di lusso che hanno coinvolto finanche uno dei re del settore, Justin Vernon aka Bon Iver.
Ed è proprio attraverso la pubblicazione del rockumentary registrato durante la lavorazione di Sleep Well Beast che si evince la misurata semplicità fai-da-te di un Grammy diverso da illustri predecessori che vanno dai Radiohead ai White Stripes, dai Nirvana a Beck, giunto nell’autunno scorso fino alla posizione numero 2 nella Billboard 200 dei dischi più venduti in America. Tutto avviene in uno chalet acquistato da Aaron Dessner nella valle dell’Hudson, a mezza strada del loro originario tragitto dall’Ohio a Brooklyn, arredato e pensato come studio di registrazione ad hoc per le nuove necessità. Immortalato di profilo nella copertina dello stesso disco, come una versione noir della casetta della home di Facebook, ne è invece quanto di più lontano. Perché i The National lavorano insieme solo se compresenti, qui e adesso, nello stesso open-space, perché per fare la loro musica serve guardarsi negli occhi in ogni pausa. Solo e soltanto insieme, appassionatamente, si arriva a trasmettere la ruvida sensazione di essere “ubriachi di gioia”, per citare il vecchio amico che se ne innamorò nel corso di un concertone estivo sotto le stelle di Ferrara.
Insomma, abbiamo a che fare con il lato oscuro del pop, il lato maschio e adulto, adesso reso anche ufficialmente maturo. E la scelta circa come sintetizzare i The National è come un bivio: rock di prima scelta per bistrot cupamente orchestrali; oppure affidarsi all’incantevole realismo di un messaggio Whatsapp ricevuto appena prima della stesura di questo articolo: “Una band stratosferica che non ha musicisti in grado di farla evolvere a un livello finale. I The National sono come una gran bella automobile senza optional. Bravissimi, prendono 30 sempre, ma senza lode”. Grazie di cuore Daniele, perché in due frasi ci sono tutti i buoni motivi per aspettare con ansia il post-Grammy.