Wrongonyou: il più “americano” dei nuovi talenti italiani – Intervista
Wrongonyou è un personaggio decisamente “sui generis” nel contesto della scena indipendente italiana: oltre allo stile musicale di respiro internazionale, padroneggia una tecnica anche fingerstyle sulla chitarra acustica che pochi fra i nuovi artisti italiani possono vantare
Marco Zitelli parla con una piacevole cadenza romana e canta in inglese con un accento meticcio, quasi giamaicano. Il sound e il songwriting, però, sono americanissimi. Wrongonyou – questo il nome d’arte di Marco – è un personaggio decisamente sui generis nel contesto della scena indipendente italiana: oltre allo stile musicale di respiro internazionale, padroneggia una tecnica anche fingerstyle sulla chitarra acustica che pochi fra i nuovi artisti italiani possono vantare. Dopo un ottimo EP d’esordio (The Mountain Man, 2016) e la realizzazione della colonna sonora de Il premio di Alessandro Gassmann, nel quale ha anche recitato una parte, Wrongonyou è ora pronto a raccogliere le sfide del debutto full-length, l’album Rebirth uscito il 9 marzo e già portato su palchi internazionali come il South by Southwest di quest’anno.
La prima volta che ho sentito la tua musica ho pensato subito: “Finalmente anche l’Italia ha un suo Bon Iver”. Sono fuori strada o l’accostamento con questo artista ti fa piacere?
Io sono partito proprio grazie a Bon Iver. For Emma, Forever Ago mi ha folgorato e l’ho sentito quando in realtà usciva il secondo disco. A 16 anni ed ero in fissa con i Red Hot Chili Peppers. Stavo vedendo in TV il loro concerto all’Alcatraz di Milano quando John Frusciante fece For Emily, Whenever I May Find Her di Simon e Garfunkel. Non sapevo che lui cantasse: sono rimasto a bocca aperta. Da lì ho scoperto la sua carriera solista e mi si è aperta la visione di tutto il cantautorato. Nel 2012 ho visto su YouTube il set di Bon Iver al Coachella. Non riuscivo a capirlo, era strano. Sono andato a ritroso e il suo primo disco mi ha colpito proprio a livello espressivo. La sua libertà di espressione mi ha dato il coraggio di provare cose vocali nuove. Comunque penso di essermi scostato da lui, soprattutto in questo album.
Tu canti in inglese, una scelta oggi controcorrente nel panorama indipendente italiano. Perché la tua musica trova in questa lingua la sua espressione naturale?
Io ho sempre ascoltato musica straniera. Battisti l’ho ascoltato forse la prima volta due anni fa. Quando avevo 5-6 anni si era incastrata nel mangianastri in macchina una cassetta degli America. Quindi sentivo solo quelle canzoni! You Can Do Magic, A Horse with No Name, Ventura Highway… Mentre nell’altra macchina di papà c’era una compilation con I’m on Fire di Springsteen, Rock and Roll Will Never Die di Neil Young… Ho addosso il folk americano da quando ero piccolo. È una cosa spontanea: non ho imparato l’inglese per poi cantare. Ho iniziato a scrivere canzoni con quel poco che sapevo di inglese, poi piano piano ho cominciato ad aggiungere frasi più compiute.
Si avvertono spesso reminiscenze anche R&B nelle tue linee vocali (per esempio nelle scansioni ritmiche delle strofe di Shoulders): hai subito qualche influenza dalla black music?
Mi piace molto la black music e ci sono artisti da cui ho preso delle cadenze. Anche a livello di reggae, perché io ho ascoltato parecchio Bob Marley. Per esempio quando dico “you” tante volte viene fuori uno “yo”, che non è quello dell’hip hop. Poi c’è Richie Havens, che aprì Woodstock. Cantava in un modo che esprimeva tanta sofferenza. Un altro che ho ascoltato tanto è Marvin Gaye, poi parecchio gospel americano ed Elvis, uno dei primi cantanti bianchi accettati dai neri.
Parlando sempre di Shoulders: la canzone ha fatto parte della colonna sonora, da te firmata, del film Il Premio di Alessandro Gassmann, in cui hai anche recitato una parte. Com’è stato il tuo debutto al cinema?
È stato divertente! Io stavo venendo a Milano a fare la prima data di The Mountain Man (l’EP d’esordio, ndr) ai Magazzini Generali. Mi squilla il cellulare e vedo un numero sconosciuto. Rispondo e sento: “Ciao, sono Alessandro Gassmann”. Lì per lì mi dice che voleva mettere alcune mie canzoni all’interno della colonna sonora. Alla seconda telefonata mi fa: “Ci ho ripensato. Ti andrebbe di fare tutte le musiche del film?”. L’avrei fatto pure gratis! Poi mi richiama e mi chiede un’altra cosa. Stava finendo di scrivere la parte del figlio nella sceneggiatura e su quel personaggio vedeva la mia faccia. Io non avevo mai recitato. Mi succedeva che magari un giorno stavo bene, poi arrivavo sul set e c’era la scena della litigata. Alla quarta volta che Gassmann mi urlava in faccia a me non sembrava più tanto finto. Allora le mie reazioni cominciavano ad essere spontanee, tanto che a Gassmann piacevano molto.
Chiude l’album un pezzo dal testo criptico, Killer, già contenuto nell’EP The Mountain Man: mi spieghi da quali suggestioni nasce?
Mi sono messo a cantare quella melodia con parole a caso, poi le ho messe in fila. Sono solo due frasi ma questa canzone per me rappresenta il confine che c’è tra egoismo e amore verso se stessi. Lui si innamora di lei però è un killer nella vita, tipo Dexter, e la sua passione è uccidere le persone. Non riesce a capire se sia giusto ucciderla, perché comunque, per quanto la ami, la sua passione è ammazzare. Non gli basta il loro amore e quindi la uccide, oltrepassando quel confine sottile.
Nei tuoi testi è molto presente la natura con i suoi elementi essenziali (sole, laghi, montagne, rocce e così via) e il video di Prove It è ambientato in Islanda. In I Don’t Want to Get Down dici anche “Sometimes I feel like a piece of the nature”: è questa la chiave di lettura di tutto ciò?
La natura è la mia benzina e la mia macchina è la voce. Non c’è mai la calma effettiva e io ho bisogno di staccare, come tutti. Il lago è un posto magico per me perché non ha il tocco dell’uomo: nella canzone (The Lake, ndr) dico “The lake will clean your mind / The lake will clean your soul”. Il Lago Albano, dove ho girato il video, è un vulcano spento che si è riempito d’acqua: la cosa più naturale che ci sia. C’è per forza una purificazione – però te la devi anche meritare.
L’album si intitola Rebirth: di quale rinascita parli?
Per un periodo mi stavo dimenticando quale fosse la mia strada. Mi ero messo sul “binario” del successo dopo aver avuto problemi a livello familiare e di rapporti umani. La mia voce era peggiorata molto: stonavo, non arrivavo più a prendere certe note. Me lo hanno fatto notare i miei amici più stretti. Quindi ho ricominciato da capo. Ho preso lezioni di canto da una cantante lirica, ripartendo dai vocalizzi, dai suoni a bocca chiusa. In questo disco c’è appunto una canzone che si intitola Rebirth ed è stata fondamentale. Ho fatto ritardare l’uscita del disco pur di mettercela dentro. Ho ricominciato a sorridere dopo aver cantato Rebirth: c’è stata davvero una rinascita. È diventata così importante che ha dato il titolo al disco.