Voglia di eroi indie degli anni Zero: il ritorno degli Yeah Yeah Yeahs
È finalmente uscito – dopo un’attesa decennale – il nuovo lavoro del terzetto newyorkese, che convince al primo ascolto. Ne abbiamo parlato con Nick Zinner
Era il 2003 quando nel video della meravigliosa Maps Karen O cantava con le lacrime agli occhi “Wait. They don’t love you like I love you” e noi, tutti lì, davanti allo schermo a empatizzare con lei. Poi fu il turno della marcia epica di Gold Lion (2006) e della indie disco di Heads Will Roll (2009). Gli Yeah Yeah Yeahs sono stati una grandissima realtà indie rock del primo decennio del nuovo millennio: tutte le band più cool dell’indie volevano Nick Zinner come produttore e Karen O era un esempio di stile per le riviste di moda.
Poi un solo album, Mosquito (Interscope, 2013), in un lasso di tempo così lungo che è normale che si sia affievolito l’hype attorno agli Yeah Yeah Yeahs. Ma come capita nelle migliori storie di musica, una lunga attesa viene ripagata da un ottimo ritorno: Cool It Down (Secretly Canadian / Goodfellas), otto brani per poco più di una mezz’ora e con una copertina molto bella per la quale Karen O ha dichiarato: “Quell’immagine parla di temi importanti nella musica e riassume come mi sento esistenzialmente in questi tempi”.
Il disco
Con un titolo preso in prestito da un brano dei Velvet Underground, Cool It Down sembra voler ballare sulle paure di un mondo che galleggia tra la crisi climatica, la fascinazione per la natura selvaggia e riferimenti a gruppi come ESG e Four Seasons.
Wolf è un brano granitico, forte di un synth penetrante, mentre in Burning sono gli archi a catturare l’attenzione. Fleez è sensuale e ammaliante, Different Today è musica per piste da ballo meditabonde, Blacktop e Lovebomb gli unici momenti più intimisti e amniotici. Su tutto, però, primeggia la voce di Karen O, potente, volubile e ispirata come non mai.
Ci siamo fatti raccontare tutto da Nick Zinner, il chitarrista della band. Troverete molto altro della nostra conversazione nel numero di ottobre di Billboard Italia.
L’intervista
La vostra è stata un’assenza che ha fatto rumore, ma cos’è successo in tutto questo tempo?
Un sacco di cose. Tante. Troppe! Sia nelle nostre vite sia in tutto il mondo. In realtà, questo nostro ritorno doveva accadere nel 2020, poi, sai, è successo di tutto. Quindi eccoci qui. In realtà avevamo anche bisogno di prenderci del tempo per noi: Karen e Brian si sono dedicati alle rispettive famiglie, io ho collaborato con molti artisti, prodotto brani e album, e ho dato sfogo al mio amore per la fotografia, dilettandomi anche alla regia.
Cool It Down è un album molto “spaziale”, ha un sound imponente.
Capisco cosa intendi. Abbiamo sempre avuto la necessità di non ripeterci e abbiamo sempre avuto il bisogno di ascoltare cose nuove, suoni non familiari che ci stimolassero. Quello che si sente in Cool It Down è il risultato di tutto questo: i grandi avvenimenti, personali e collettivi, e i grandi sentimenti che abbiamo provato in tutto questo tempo si sono trasformati in un suono granitico.
Spitting Off the Edge of the World, che vede la partecipazione di Perfume Genius, è il brano d’apertura e affronta un tema importante come quello della crisi climatica.
Sì, non volevamo mettere in una canzone quello che tutti sanno, o dovrebbero sapere, del tipo “la Terra sta andando a fuoco!”. È un dato di fatto innegabile e dobbiamo farci i conti in qualsiasi sfera della nostra esistenza. Va bene anche avere un atteggiamento escapista – che non responsabilizza nessuno, per carità – ma questo tema è cresciuto in ognuno di noi tre e abbiamo pensato, senza troppe esitazioni e discussioni, di metterlo nero su bianco. Per noi è stato istintivo e naturale.
Cool It Down è un disco molto vario. Ogni brano ha un mood diverso e questo vale anche per la veste sonora. Per esempio, Burning ha un sound vintage che ti porta indietro agli anni Sessanta.
È una canzone nata da una mia demo a cui Karen ha voluto aggiungere degli archi. Come per gli ESG (citati anche nel testo di Wolf, ndr), abbiamo lavorato sui brani senza dimenticare l’importanza della musica di artisti che sono nel nostro DNA. In questo caso si tratta di Beggin’ (originariamente pubblicata nel 1967 dalla band Four Seasons, ndr). In molti la conosceranno per le versioni di Madcon e Måneskin, di cui noi non eravamo per nulla a conoscenza, ma siamo completamente innamorati dell’originale. Quegli archi ci piacevano tantissimo e siamo riusciti a coinvolgere una vera orchestra nelle registrazioni!
Invece Lovebomb mi sembra che guardi un po’ alle radici degli Yeah Yeah Yeahs.
Credo perché l’abbiamo scritta, come molte canzoni del disco, con lo stesso spirito degli esordi. La nostra idea iniziale era buttar giù qualche pezzo per i fan, senza alcuna programmazione e senza alcun contratto discografico. Quindi è cominciato tutto con me e Karen chiusi in una stanza a scrivere, la stessa situazione di vent’anni fa: nessun produttore, niente studio. Soltanto due persone in sintonia che fanno canzoni o abbozzi di canzoni.
A proposito degli esordi, quali erano le vostre influenze?
Se torno indietro al 2000, devo dire che eravamo fortemente influenzati da certa musica degli anni Ottanta, dai New Order a scendere – ecco perché prima sono sbucati gli ESG. Credo che siamo nati sostanzialmente perché ci siamo posizionati a metà tra quello che ci piaceva e quello che volevamo fare.
Dal passato catapultiamoci direttamente al futuro. Immagino che l’idea di tornare in tour vi stia elettrizzando.
Suonare con gli Yeah Yeah Yeahs è la cosa più bella al mondo: durante i concerti mi commuovo, mi emoziono, mi gaso come vent’anni fa! I nostri fan ci sono mancati ma, sinceramente, anche noi: ci siamo mancati.
Articolo di Fernando Rennis