Brasile, la passione di una vita: intervista a Mario Biondi
Il nuovo album di Mario Biondi, “Brasil”, è un disco dalle suggestioni ricche, eterogenee e di ampio respiro: brani originali e cover, di artisti brasiliani e non, quattro lingue diverse, sound carioca e arrangiamenti funk, tanti ospiti e una produzione di primo piano
Il titolo dell’album è semplice e programmatico: Brasil (con la esse, come ci tiene a puntualizzare nelle note del booklet). Tuttavia il nuovo lavoro in studio di Mario Biondi è un disco dalle suggestioni ricche, eterogenee e di ampio respiro: brani originali e cover, di artisti brasiliani e non, quattro lingue diverse, sound carioca e arrangiamenti funk, tanti ospiti e una produzione di primo piano. Al centro, naturalmente, la musica e soprattutto la passione per un paese dalla cultura ricchissima che ha sempre influenzato, in un modo o nell’altro, l’arte di Mario Biondi. Questo 2018 riserva per lui tanti importanti appuntamenti internazionali: uno su tutti, quello del 5 luglio all’Indigo at the O2 di Londra.
Tu hai detto: “I suoni e la cultura del Brasile hanno da sempre accompagnato il mio cammino nella musica”. Da quanto tempo avevi in mente un progetto a tema Brasile?
Da tantissimo. Bene o male già i miei progetti precedenti avevano molta influenza brasiliana nelle ritmiche e nelle armonie. Comunque l’idea di poter finalizzare un progetto totalmente realizzato in Brasile, con musicisti brasiliani e indirizzato alla cultura brasiliana, era uno dei sogni nel cassetto.
In genere in Italia la gente pensa che la musica brasiliana si riduca al samba e alla bossa nova, quando invece è un universo. Che scena musicale hai trovato lì oggi?
È una scena musicale piuttosto varia, come è ormai in tutto il mondo. La cosa bella è che certe peculiarità che sono patrimonio del territorio brasiliano continuano a mantenerle vive. Il samba è sicuramente una di queste.
Se ne sente molto per le strade?
Sì, soprattutto se vai nei quartieri un po’ più popolari trovi ancora molti club in cui fanno samba e bossa nova.
Dicevi giustamente in conferenza stampa che si ascolta anche molto funk e hip hop.
Sì, la storia del funk è molto antica in Brasile. Già artisti come Tim Maia negli anni ’70 lo facevano. Oggi naturalmente è una scena popolata anche da trap e hip hop. La cosa bella è che comunque il popolo brasiliano mantiene sempre molto viva quell’esoticità tipica di quella zona.
L’influenza brasiliana è evidente nell’album ma è sempre molto naturale, mai caricaturale. E pezzi come Devotion e On the Moon sono brani funk/disco in senso canonico. In cosa sta secondo te l’essenza “carioca” di questo lavoro?
Sicuramente anche nei brani più funk come On the Moon l’estrazione prettamente brasiliana si sente: sulle ritmiche, sulle armonie, sulle modalità armoniche. E poi qualche citazione qui e là non me la sono fatta scappare.
Però con grande parsimonia e rispetto di una visione d’insieme.
Sì, non volevo essere una pantomima della musica brasiliana ma una bella contaminazione. Un mio amico musicista dice: “Il jazz non esiste. Esistono i jazzisti”. La verità è che in questo progetto la musica brasiliana sta nei musicisti brasiliani che hanno suonato. Quello meno brasiliano lì in mezzo sono io. Roberto Pollo è di terza generazione brasiliana ma è di origine veneta. Il bello è quello: c’è un grande melting pot di etnie e quindi anche di contaminazioni musicali.
Ci sono cover di artisti brasiliani di ieri e di oggi ma anche di altri altri paesi (Henri Salvador, Sade). Come sono entrate nel disco quelle due canzoni, Jardin d’Hiver e Smooth Operator?
Jardin d’Hiver aveva già la sua attitudine bossa nova nella sua versione originale. Ho trovato che la lingua francese è molto dolce e si prestava parecchio anche all’accostamento con la lingua portoghese, che è piena di sonorità. Sade è una specie di mito, un grande amore degli anni ’80, parte di una scena musicale “elegante”.
Il disco parla portoghese, inglese, francese e italiano. In diversi pezzi si alternano più lingue. Non avevi paura che fosse un’attitudine troppo cosmopolita per il pubblico medio italiano?
A differenza di molti, io non ho mai percepito il pubblico italiano come “sottosviluppato”. Reputo che sia molto colto e gli piaccia ascoltare musica di tutti i generi. Che poi ci sia una frangia che poco si allinea a un progetto di questo tipo forse sono è quella dei giovanissimi. Però allo stesso tempo loro si lasciano affascinare da qualcosa di particolare.
L’album è registrato a Rio e mixato a Los Angeles: un lavoro “panamericano”. Avevi bisogno del nuovo mondo per trovare un nuovo sound?
Sicuramente per realizzare certe sonorità c’era bisogno di fare il disco in Brasile. Questo non vuol dire che i musicisti italiani non siano capaci, anzi lo dimostreremo dal vivo. Però per quanto riguarda la creatività, che è un altro processo rispetto all’esecuzione, quella brasiliana ce l’ha un brasiliano – come la creatività italiana ce l’ha un italiano o quella americana un americano. Ci sono ritmiche di batteria che non so quanti batteristi italiani o americani avrebbero pensato con quella modalità. Stessa cosa per le linee di basso.
L’album è co-prodotto da un grande come Mario Caldato, che fra le varie cose ha firmato diversi capolavori dei Beastie Boys. Che tipo di lavoro ha fatto sui tuoi brani?
Mario è un uomo di una modestia incredibile. Io sono arrivato lì con una piccola dose di “pregiudizio”. Non sono abituato a essere prodotto: in genere sono io il produttore, io che scrivo, io che arrangio. In quest’occasione allora ho fatto solo il cantante. Invece quasi da subito siamo entrati in feeling. Abbiamo cominciato a parlare di musica, ad ascoltare cose insieme. Io non riesco ad esimermi dal dare input, provocazioni, idee. Nel momento in cui io ho cominciato ad espormi, da parte loro si è aperto un mondo: li ho visti molto disponibili. Mario nei mix è qualcosa di fenomenale. Li ascolto continuamente e so che se li ascolterò fra dieci anni ancora scoprirò qualcosa di nuovo.
Su Deixa Eu Dizer di Ivan Lins collabori con lo stesso Lins. Ti ha dato suggerimenti o indicazioni particolari per la reinterpretazione del suo brano?
Avremmo dovuto lavorare insieme ma lui è stato convocato per un impegno importante. Quindi lui ha cantato per i fatti suoi e io ho cantato con Clàudya. Lins non l’aveva mai cantata su nessun disco, solo qualche volta dal vivo, quindi è anche una chicca molto particolare.