Mobrici: «Si dice che si fanno figli per amore, ma per il loro amore è meglio non farli nascere»
Ora che il cantautore ha passato “Gli Anni di Cristo” (come ha intitolato il suo nuovo album), si sente anche libero di dire la sua sui temi che caratterizzano il passaggio alla piena età adulta. L’abbiamo incontrato
Trentatré: per il loro fascino un po’ mistico-religioso, da sempre “Gli Anni di Cristo” rappresentano una tappa simbolica fra la spensieratezza degli anni giovanili e le responsabilità della vita pienamente adulta. Un cantautore sempre attento agli stimoli generazionali come Mobrici non si è lasciato sfuggire l’occasione di intitolare così il suo nuovo album, composto di canzoni scritte appunto a 33 anni (da poco ne ha compiuti 34).
Le undici tracce del disco sono caratterizzate da una notevole varietà di sound (indie rock, garage, post punk, ballad, pop italiano anni ’80…) e di temi, dalla libertà sessuale alla ricerca di un amore non ancora conosciuto, dalla consapevolezza di storie del passato viste con uno sguardo più maturo alla difficoltà che comportano le storie a distanza.
Fra poche settimane sarà la volta dei due concerti sold out a Roma e Milano (al Monk il 18 aprile e ai Magazzini Generali il 20), a cui è stata aggiunta la data del 30 novembre all’Alcatraz di Milano («una grande festa con tanti ospiti», promette Mobrici). Nell’attesa di scoprire le tappe estive, abbiamo incontrato Mobrici alla vigilia dell’uscita de Gli Anni di Cristo.
Ascolta Gli Anni di Cristo di Mobrici
L’intervista a Mobrici
Il titolo Gli Anni di Cristo suona quasi come uno “statement” generazionale. La nostra è stata una generazione un po’ di mezzo, meno efficace sul piano del cambiamento sociale e politico rispetto a quelle venute prima e dopo, non credi?
Sì, politicamente siamo stati abbastanza addormentati dal berlusconismo, una fase storica che ha caratterizzato la nostra infanzia e adolescenza. Con “berlusconismo” intendo tutto il sistema politico, non solo la persona di Berlusconi: anche la sinistra faceva parte di quel sistema.
Adesso la nostra generazione si sta facendo fare le scarpe da una grande rivoluzione sessuale che è in atto. Noi siamo cresciuti con degli step da seguire quasi obbligatoriamente. Ti sembrava di dover entrare in un sistema di vita progettato da chi è venuto prima di noi: lavoro, matrimonio, figli, pensione. Le nuove generazioni hanno capito che quel sistema non porta alla soddisfazione personale.
Noi “Cristi” adesso siamo a cavallo fra il mondo che abbiamo conosciuto, cioè la fine del ‘900, e il mondo che sta arrivando. Abbiamo scoperto che tante verità del passato non si sono confermate. Per esempio il sistema famiglia: ora stiamo scoprendo che esiste un’alternativa, cioè “anche no”.
Un pezzo come Figli del Futuro parla proprio di questo, no?
Sì, io me ne sono accorto adesso. Anni fa non ci pensavo perché mi sentivo ancora molto “figlio”. Invece adesso mi sento entrato in una fase adulta, quindi questo è uno dei temi da affrontare. È una cosa che potrebbe capitare, che vedo succedere ai miei amici, a mia sorella.
Da sempre mi è stato detto che si fanno figli per amore. A me invece è parso che, proprio per il loro bene, è meglio non farli mai nascere. Comunque nella canzone non do una mia risposta finale.
A me non va di rivivere attraverso un figlio le tappe della mia vita: le elementari, le coniugazioni dei verbi, le tabelline… Per lo stesso motivo non mi va di guardarmi molto indietro, di rivedere le mie foto da bambino. Essendo proiettato verso il futuro, guardare indietro mi sembra una violenza. Quest’idea di ripercorrere la vita tramite qualcun altro, cercare di non fargli fare i tuoi stessi errori, un po’ mi dà fastidio.
La opening track Sexe mi sembra un pezzo quasi alla New Order: ritmo incalzante, synth, drum machine, armonia monotonale.
È la prima volta che scrivo una “non canzone”: non ha l’approccio classico. È costruita su un’unica nota, il do, con questo ritmo martellante che continua a evolversi a salire. Infatti richiama l’orgasmo: un argomento molto più semplice rispetto al resto, ma per me comunque fondamentale.
È la canzone con cui aprirò i concerti. L’attenzione alla sessualità, alla voglia di sfogarsi, fa parte della mia vita, e il brano segue l’emozione di un orgasmo: ha dei picchi che vanno e vengono. Del resto non ci sono doppi sensi: parole come “vuoi venire con me” sono da intendere letteralmente.
Kaiserkeller ha un sound diretto, “sporco”, un po’ garage. Hai detto che il titolo si rifà al celebre locale di Amburgo in cui si esibirono anche i Beatles: è la tipica nostalgia di epoche che non abbiamo vissuto?
Io sono un’epoca che non ho vissuto. Allo stesso tempo non cambierei mai il futuro con il passato: non vorrei mai ritrovarmi in un’Italia degli anni ’70. Ma non ho perso l’amore per gli stili musicali del passato.
I Beatles suonavano in questo locale sotterraneo, probabilmente davanti a degli ubriaconi, poi ogni tre pezzi c’era uno spettacolo di burlesque… Insomma, rock and roll, sesso e alcol. Quel mondo mi ha sempre interessato. Il sound comunque è più moderno, un po’ un mix fra Vampire Weekend e The Strokes.
Mobrici, mi racconti la storia di Luna, questa sorta di Sally contemporanea?
Dopo un concerto l’anno scorso, una ragazza mi ha raggiunto nel backstage, quando già stavo salendo sul furgoncino. Mi ha impressionato per il suo sguardo: da un lato era come se avesse visto Gesù Cristo, dall’altro aveva una tristezza infinita.
Pensavo volesse fare una foto. Invece mi ha guardato e ha detto: “Io non ce la faccio più a vivere una vita così. Posso darti un abbraccio?”. Mi ha abbracciato e se n’è andata. Non ho neanche avuto il tempo di rispondere qualcosa.
Non ricordo neanche il suo aspetto, ma quell’episodio me lo sono tenuto stretto. Io non vorrei mai essere uno che amplifica le tristezze degli altri, le brutture della vita. Spero che adesso lei stia meglio.
Luci del Colosseo è un omaggio al pop mainstream italiano anni ’80?
Musicalmente sì, mi è sempre piaciuto quel mondo. È un brano molto semplice, parla di una distanza tra Milano e Roma, dove conosci persone che non stanno nella tua città. I grandi pezzi degli anni ’80 sono un po’ come il reggae: sono poche le possibilità di farci un sound che possa durare più di due dischi, va preso a piccole dosi. Se avessi fatto nove pezzi così, sarebbe stato limitante.
Il bello è che per ogni canzone scegli il vestito che vuoi. Le mie canzoni nascono già con il loro sound, non chitarra e voce. Il tipo di sound è importante: è comunicazione anche quello, come nel caso di Sexe.
Stavo Pensando a Te è passato dall’essere un pezzo rap dalla qualità pop a un pezzo pop dalla qualità rap. Come hai lavorato su questa “traduzione”?
Quando l’ho sentito la prima volta, mi è arrivato come il pezzo di un cantautore, non di un rapper. La mia stima per Fabri Fibra è al di sopra di tutti gli altri, in un certo senso. Io non sono parte della “famiglia” del rap, non sono neanche un grande ascoltatore. Invece uno come Fabri Fibra riesco ad ascoltarlo e capirlo.
La cover è nata per caso: io e Fulminacci dovevamo fare un video per Rockit, che ci aveva proposto di suonare un pezzo dei Canova. Ma non mi andava. In quei giorni era uscito quel pezzo, così ho fatto un mio provino, l’ho mandato a Fulminacci e gli è piaciuto. Non c’era stato un grosso ragionamento dietro.
Dopodiché la cover è diventata molto richiesta, è andata anche in una serie Netflix (Fedeltà, ndr). Così abbiamo deciso di registrarla in studio. Adesso che esce Gli Anni di Cristo, avevo voglia di darle una casa. Adesso quando la suono la sento mia, totalmente. È piaciuta anche a Fibra, quindi il cerchio è chiuso.