La sensibilità indie di Bais: «Scrivo canzoni pop cantautorali vestite di stracci»
Venerdì scorso è uscito “Radical Pop”, il nuovo lavoro dell’artista veneto che ha varcato la soglia dei 30 anni

Luca Zambelli Bais, classe ‘93, arriva da Bassano del Grappa ma è milanese d’adozione. Forse non è solo questo dettaglio che accomuna Bais a Lucio Corsi, un altro artista del roster Sugar, l’etichetta per la quale è uscito venerdì scorso Radical Pop, il suo terzo album in studio. Ad avvicinarli c’è anche una bella sensibilità nello scrivere testi che cercano nel quotidiano quel tocco di poeticità o di inadeguatezza. Se musicalmente il cantautore maremmano ha come punti di riferimento evidenti al primo ascolto, gli anni ’70 rock e di certi autori italiani del pop, per Bais il rimando immediato al suo sound ci porta verso la pletora di artisti indie dei primi anni Zero, dai Phoenix ai Tame Impala. Anche se poi, leggendo le sue risposte in questa intervista, noterete che i “maestri italiani” sono sempre quelli, per entrambi.
Per Radical Pop Bais, ha chiamato alla produzione un protagonista di qualità del pop più alternativo e meno ammiccante al mainstream: Claudio Corbellini dei Post Nebbia che ha conferito al disco una certa patina sofisticata, in perfetto equilibrio tra citazioni passatiste e una certa modernità. Radical Pop non è un album nato per sfondare le classifiche, ma certamente ci può “purificare l’orecchio” da tante sciocchezze pop che circolano massivamente in rete. Ed è per questo motivo che merita di essere conosciuto meglio, bussando alla sua porta.
L’intervista a Bais
Quando avevi vent’anni l’indie era dominato da band come Tame Impala, Arctic Monkeys, Vampire Weekend, Arcade Fire. Eravamo all’apice dell’hipsterismo prima del suo scivolare nel mainstream. Mi piacerebbe capire di cosa si sia alimentata la tua cultura musicale.
Si è formata da giovanissimo quando ancora non suonavo, in macchina i miei genitori mettevano Elton John, Battiato, Leonard Cohen, Bob Dylan… A distanza di anni sento che quei primi ascolti influenzano tuttora il mio modo di scrivere e suonare. Il periodo a cui ti riferisci l’ho vissuto un po’ in differita: a parte i Tame Impala che ho macinato, Arctic Monkeys e Vampire Weekend li ho ascoltati soprattutto dagli ultimi dischi, che per i fan storici non sono degni… Quando avevo vent’anni ho ascoltato molto i Radiohead e i Verdena. Poi ho scoperto e amato Damon Albarn e Mac Demarco. E poi naturalmente i Beatles e i dischi solisti di John, Paul e George li metto nell’olimpo. Mentre scrivevo questo disco ho ascoltato molto gli Strokes, Porches, Steve Lacy e Tyler the Creator.
Poi sei arrivato a Milano: che cosa è favoloso e invece terrificante di questa città?
È terrificante il fatto che diventi sempre più elitaria. Scompaiono i centri sociali e i piccoli club che davano spazio alle band emergenti, esclusi i pochi coraggiosi che sopravvivono. Inoltre l’aria che respiriamo sta diventando sempre più tossica. È favoloso che dietro questa patina da finta metropoli esistono ancora luoghi e ritrovi di persone che procedono ad un ritmo sostenibile e promuovono attività culturali e sociali che sono la linfa vitale di una città.
Sei entrato nel mondo della Sugar nel 2020 e ti stanno seguendo mi pare senza la pressione che spesso in una major c’è se non fai il botto. Una strada che ha seguito anche un altro tuo collega di etichetta: Lucio Corsi. Che rapporto hai con lui?
L’ho conosciuto qualche anno fa, ma non ho più avuto l’occasione di farci due chiacchiere. Lo stimo e apprezzo la sua musica, ha sempre fatto quello che voleva artisticamente e alla lunga ha avuto ragione. Penso che, al di là del clamore di Sanremo, tutto il mondo della discografia dovrebbe capire che l’unico modo per far esprimere al meglio un artista è fidarsi, accettare il rischio e sostenere la sua visione.
Anche Lucio arriva dalla provincia e vive, spesso, a Milano. Cosa ti da in più dal punto della sensibilità artistica arrivare da un luogo lontano dalle mille luci di una metropoli?
Direi che mi sento fortunato ad essere cresciuto a Bassano, in provincia. Oltre ad essere una bellissima città, è circondata dalla natura e, pur essendo piccola, sai che c’è sempre stato un grande fermento artistico tra i giovani. Credo sia importante crescere in provincia e non avere tutto a portata di mano; il silenzio, la noia, la natura sono tutti elementi fondamentali che alimentano i sogni e la voglia di avventura.
Nel tuo nuovo disco hai lavorato con Carlo Corbellini che ha una bella sensibilità per i suoni indie. Cosa ti è piaciuto di lavorare con lui?
Prima di tutto è un amico e sono sempre stato un grande fan dei Post Nebbia. È stato un onore e un piacere lavorare a stretto contatto con lui e conoscerci sempre meglio, sia personalmente che musicalmente. Mi piace molto il suo approccio in studio, estremo ma anche pragmatico, non accetta compromessi e se ne frega dei canoni musicali italiani, anzi, li distrugge.
Di recente ho intervistato Francesco Bianconi, che accusa il pop italiano di mancanza di profondità nei testi. E tu fai un disco che si intitola Radical Pop. Cosa vuoi far intendere con questa tua definizione? Non vorrei che finisse per cadere in un’accezione stile “radical chic”…
Questo titolo è nato per gioco, per descrivere un momento in studio mentre stavamo producendo il disco: c’erano sequenze di sintetizzatori che si mescolavano all’afa estiva torinese nell’aria; sulla scrivania una birra, una fetta di formaggio e un posacenere. “Radical pop” è quasi un ossimoro e mi sembra un titolo che rispecchia la natura contraddittoria e ambigua delle canzoni al suo interno. È un frutto e una reazione a questi tempi spigolosi e vorticosi, dove il passato è un’utopia ed il futuro una condanna. Ho notato che la parola “radical” dà fastidio a tanta gente, forse per l’accezione radical chic; anche questo aspetto provocatorio mi piace. A me la parola “radicale” piace molto, sia come suono che come significato. Andare oltre i compromessi, alla radice delle cose.
Nei tuoi testi ti sei anche concentrato sulla vita quotidiana e sentimentale di un trentenne. Magari mi sbaglio ma sottotraccia sento un mondo che a volte e fatto di piccole incomprensioni e pentimenti. Le relazioni sono il tuo “terreno di caccia” per la scrittura dei testi?
Credo di sì, non solo le relazioni di coppia ma anche quelle tra amici e in famiglia. Mi incuriosiscono molto i rapporti tra le persone, sono talmente inaspettati e assurdi a volte che non serve inventarsi altre storie. Scrivere canzoni mi aiuta a comprendere questi rapporti e me stesso.
Perché c’è una scarpa con il tacco in copertina?
La copertina è un’opera di Gio Pastori. L’immagine racchiude un gesto, un movimento rumoroso. L’esplosione bianca è il suo modo di rappresentare il concetto di POP: una scarpa che impatta e lascia un segno. Per questo disco ho sentito il bisogno di avere una copertina non fotografica, minimale e diretta ma allo stesso tempo aperta a libere interpretazioni.
E poi è un brano che ricorda la scuola classica del cantautorato italiano. A cosa ti sei ispirato per il sound ma anche nella costruzione del testo?
L’ho scritta anni fa partendo dal giro di piano con cui inizia, attorno a cui ho costruito tutto il pezzo. Per il sound io e Carlo abbiamo lavorato di contrasti: accostando suoni più classici come quello del pianoforte ad altri più ruvidi, tra sequenze di sintetizzatori e chitarre modulate e distorte.
Silicone con quel taglio aspro e dance mi pare uno dei migliori risultati della produzione di Carlo.
È stata la canzone da cui Carlo è partito a fare le prime prove di produzione! Il pezzo in principio era una specie di ballad chitarra e voce, poi è diventata la canzone più aspra e distorta del disco. Silicone è l’esempio perfetto di “Radical Pop”: una canzone pop cantautorale vestita di stracci.