Daniel Caesar: “Son of Spergy” è R&B da camera che accarezza l’anima
Il quarto album del cantautore canadese è il diario intimo di un trentenne che guarda al rapporto con il padre e con Dio per capire chi vuole diventare “da grande”
Il compimento dei trent’anni segna il primo vero ingresso nel mondo degli adulti, portando con sé bilanci, domande esistenziali e nuove sfide. Un’età che modifica anche il rapporto con i propri genitori, rendendolo più maturo, intenso e quasi paritetico. Sono questi i temi che hanno ispirato il quarto album del cantautore e polistrumentista canadese Daniel Caesar, Son of Spergy, pubblicato il 24 ottobre in digitale, CD e vinile da Island Records.
Lo “Spergy” del titolo è il soprannome di suo padre Norwill Simmonds, ospite vocale di Baby Blue, una delle canzoni più belle di un album ricco di calore, sincerità e redenzione. “Nutro molto rispetto per mio padre e lo stimo molto. L’album parla di me che mi rendo conto di essere esattamente come lui”, racconta Caesar. “In questo senso, si tratta di avere pazienza, rispetto e ammirazione per me stesso”.
Il disco è quasi il diario intimo di un uomo che guarda al rapporto con il padre e con Dio per capire chi vuole diventare “da grande” e per affrancarsi da un passato con molte cadute. Mentre i precedenti album Freudian, Case Study 01 e Never Enough erano spesso incentrati sugli alti e bassi dell’amore, Son of Spergy è un suggestivo viaggio nell’anima di Daniel Caesar.
Un disco sulla riconciliazione
Secondo il racconto dello stesso Daniel Caesar, Son of Spergy è stato concepito intorno alla parola “riconciliazione” e si è nutrito dei paesaggi sconfinati e del cielo del Montana, dove gran parte di esso è stato concepito. Un racconto che è stato arricchito dalle voci e dal talento di Sampha, Blood Orange, Bon Iver, Yebba, 646yf4t e del già citato Norwill Simmonds, tutti perfettamente calati nell’atmosfera calda, intima e da camera dell’album.
L’R&B levigato e sensuale dei precedenti dischi lascia qui spazio al gospel, al soul acustico, all’indie folk e al dream pop. La produzione è raffinata e quasi del tutto “analogica”, in cui la batteria è spesso assente e l’elettronica colora solo l’atmosfera di alcuni brani. Un album sicuramente coraggioso e poco commerciale, soprattutto per un artista che può vantare ben 37,5 milioni di ascoltatori mensili su Spotify e un Grammy Award in bacheca.
Un riff ostinato di pianoforte e il sovrapporsi di voci gospel introducono l’ascoltatore al brano iniziale Rain Down, a cui partecipa come ospite il mai troppo lodato Sampha. La canzone sembra più una preghiera che l’introduzione di un album pop: “Signore, lascia che le tue benedizioni piovano su di me”. La successiva Have a Baby (With Me) è una ballad di abbacinante bellezza, in cui la richiesta del cantante canadese di “avere un figlio con me” non è intesa solo dal punto di vista del sesso, ma soprattutto nel lasciare un’eredità destinata a durare dopo di lui.

Le collaborazioni con Bon Iver, Yebba e Blood Orange
Call on Me è il brano più rock ed energico dell’album, nello stile del primo Lenny Kravitz. Baby Blue e Who Knows, con le loro voci eteree e le atmosfere oniriche, ci hanno ricordato la magia senza tempo di Pet Sounds dei Beach Boys. La “beatlesiana” Root of Evil ha un sound placido e al tempo stesso coinvolgente, mentre il testo è assai tormentato: “Sono un uomo o una bestia? Qualcuno, per favore, mi dia una disciplina”.
Justin Vernon (Bon Iver) arricchisce con il suo talento due brani: la lunga suite conclusiva Sins of The Father e la delicata Moon. Quest’ultimo è un brano tenero e malinconico che racconta la transizione dall’infanzia all’età adulta, oltre al bisogno di crescere senza rinnegare le proprie radici: “È questo che chiami amore? / Un giorno me ne andrò da casa tua / Diventerò un uomo, mi costruirò una vita mia”.
Uno dei brani più emozionanti dell’album è Touching God, una preghiera travestita da ballata, impreziosita con i cori celestiali di Yebba e Blood Orange, intrisa di dolore, fede e gratitudine. Sign of the Times non ha nulla a che vedere con l’iconico brano di Prince, né con quello più recente di Harry Styles, ma è comunque una grande canzone divisa in due parti: una prima più lenta e supplichevole, mentre la seconda è più ritmata e grintosa.
In conclusione
Son of Spergy è un album profondo, ispirato, maturo, tra i migliori pubblicati nel 2025, che se ne frega delle mode musicali del momento e che mette al centro l’anima di Daniel Caesar. Un disco che non è immediato, né semplice a un primo impatto, ma che cresce a poco a poco, fino a dispiegare tutto il suo potenziale emotivo dopo diversi ascolti.
Il cantautore canadese è riuscito a raccontare temi delicati come amore, perdita, fede e perdono in una lunga confessione a cuore aperto, esplorando diversi generi musicali, seppure con una certa coerenza sonora. Con Son of Spergy, Daniel Caesar è riuscito ad alzare l’asticella e a mostrare un lato inedito della sua arte in un album che, probabilmente, troveremo in diverse classifiche dei dischi più belli del 2025.
