Donna Summer: 10 anni senza di lei, ma rimane ancora la regina della disco (e non solo)
Esempio per le generazioni a venire, da Madonna a Dua Lipa e Doja Cat, la cantante americana ha saputo rendere il dancefloor un territorio di confronto e di riscatto per tutte le minoranze etniche e sociali. Il nostro omaggio
Era il 17 maggio 2012 quando arrivò l’inaspettata notizia della prematura scomparsa a 63 anni di LaDonna Adrian Gaines, per tutti: Donna Summer. La regina se n’era andata, in modo naturale, senza scandali né clamori, lasciando però un vuoto incolmabile.
Una voce potente e poliedrica come poche nel panorama musicale. Nell’arco di quasi quattro decenni la superstar afroamericana originaria di Boston ha venduto qualcosa come 150 milioni di dischi. Ha vinto cinque Grammy, un Oscar e ottenendo una valanga di premi e dischi d’oro e di platino in ogni parte del globo. Una vera diva della musica pop. Tuttavia, proprio perché al top delle vendite, venne tacciata frettolosamente dalla stampa dell’epoca come fenomeno effimero e puramente commerciale. Alla stregua dello screditato sound da lei reso iconico: la disco music.
Incoronata sovrana di questo genere dominante per tutta la seconda metà degli anni ’70, l’ineguagliabile Queen of Disco trascende invece giudizi superficiali e barriere sonore. Valorizzò la pista da ballo come territorio di confronto e lotta per tutte le minoranze etniche e sociali. Afroamericani, emigrati, omosessuali, emarginati, grazie alla sua musica sensuale e travolgente, scoprono una nuova forza catartica di liberazione e riscatto.
Ma c’è di più. Donna Summer, ponendo al centro dei suoi primi hits l’eros al femminile, diventa una caposcuola per le generazioni di cantanti dagli anni ’80 fino ai giorni nostri. Artiste come Madonna, Janet Jackson, Kylie Minogue, per non parlare di Rhianna, Beyoncé, Lady Gaga, fino a Dua Lipa e Doja Cat.
Love to Love You Baby, il primo grande successo di Donna Summer
Attraverso un repertorio del tutto all’avanguardia, la bella e affascinante cantante inaugura un processo di parità di sessi, non senza attirarsi avversità e biasimi. A cominciare da quel Love to Love You Baby che nel 1975 stravolse lo scenario musicale. Accostando lussureggianti e dilatate orchestrazioni soul in stile Isaac Hayes e Barry White la voce sexy di Donna simulante ben 23 orgasmi, secondo il conteggio del Time Magazine di allora.
Fu uno shock. I benpensanti programmatori di mamma Rai e della BBC si affrettarono a censurare il peccaminoso brano. Comunque deflagrò dai club fumosi e sotterranei di Manhattan in tutte le discoteche mondiali diventando un hit gigantesco.
Un nuovo sound denominato “sex-rock”, ancor prima che il termine “disco music” venisse coniato, sbocciò a Monaco di Baviera. Lì Donna a fine anni ’60, non ancora ventenne, si trasferì per far parte della compagnia teatrale di Hair e di altri musical in loco come Godspell e The Me Nobody Knows. Fu proprio in Germania che incappò in Giorgio Moroder e Pete Bellotte, produttori e musicisti folgorati dalla sua voce. Con loro instaurò una fortunata intesa artistica e umana che durerà per sette anni consecutivi.
Le hit globali in simbiosi con Giorgio Moroder
I successi, siglati per lo più dall’inossidabile trio Summer-Moroder-Bellotte e registrati nei leggendari Musicland Studios (Queen, Led Zeppelin, Elton John) con il suggello della Casablanca Records di Neil Bogart, non si contano. Try Me I Know We Can Make It, Could It Be Magic, Spring Affair e il futuristico ipno-electro-soul I Feel Love infiammarono i dancefloor prima di Last Dance, premio Oscar per l’autore, e suo grande amico, Paul Jabara, tratto dal soundtrack di Thank God It’s Friday, film che la vide anche in veste di attrice. Fino alla superlativa Mac Athur Park, con cui nel 1978 entrò ufficialmente nell’olimpo delle superstar.
Il boom dirompente fu nell’anno successivo. Summer, raggiante sulla cover del prestigioso magazine Newsweek, colorò il suo arcobaleno di pop (On the Radio), funky (Bad Girls, il suo disco più venduto) e persino rock, con l’incendiaria Hot Stuff con cui si aggiudicò, primo artista nero, un Grammy nella rispettiva categoria.
Dopo No More Tears (Enough Is Enough) con Barbra Streisand, ecco la svolta degli anni ’80 e gli ultimi due dischi con Moroder e Bellotte. Ovvero la new-wave post-disco di quell’I‘m a Rainbow che, se il discografico David Geffen all’epoca non avesse scriteriatamente bloccato, sarebbe diventato l’album-manifesto di Donna. E non è un caso che la title track “Sono un arcobaleno”, appunto, sia stata composta a pennello per lei da Bruce Sudano, suo coniuge dall’80 fino alla fine dei suoi giorni. Dal quale ha altre due figlie, dopo la primogenita Mimi, nata dal primo matrimonio della cantante durante il periodo tedesco pre-Love to Love You Baby.
Dai gioielli di fine anni ’80 all’entrata (postuma) nella Rock and Roll Hall of Fame
Riprese in mano la sua vita dopo l’abbagliante e autodistruttiva frenesia del successo.(“Fame is only a dreamland away”, canta in Who Do You Think You’re Foolin’ del 1980.) per dedicarsi ai suoi interessi familiari, spirituali e all’arte figurata (come pittrice). Ma ci regalò negli anni a venire una sfilza di emissioni frutto della sua creatività e dell’innata duttilità vocale.
Sul finire degli anni ’80 tornò regina del dancefloor con il trio britannico Stock-Aitken-Waterman grazie al gioiello This Time I Know It’s for Real, prodromo di una carrellata di dance-hits (in totale sono 18 i suoi #1 nella classifica Dance Club Songs di Billboard) che, intervallati con progetti R&B, soulful-house, il duetto con l’altra diva, Liza Minnelli, e numerose divagazioni gospel, portano al Grammy con Giorgio Moroder per la reunion di Carry On e alla dance con la cover di Con Te Partirò di Andrea Bocelli, diventata I Will Go With You.
Nel 1999 VH1 la ingaggiò per l’album Live and More Encore, successore del blockbuster di poco più di vent’anni prima Live & More, primo live album numero uno negli States per un’artista femminile e (pure) afroamericana.
Nel 2008, quando oramai erano perdute le speranze per un nuovo lavoro in studio di Donna Summer, la regina tornò in studio. Chiamò a raccolta i produttori più cool del momento (Greg Kurstin, Danielle Brisebois, Toby Gad), sfornò quello che rimane il suo ultimo disco: Crayons (“pastelli”). Infine la Rock and Roll Hall finalmente nel 2013, anno successivo alla sua scomparsa, la include nell’Empireo di questa leggendaria istituzione musicale.
Una grande rivincita per colei che qualcuno avventatamente definiva soltanto una “queen for a day”.