Pop

Halsey: una metamorfosi rock nel nuovo disco prodotto da Trent Reznor

Complice la recente maternità, l’artista ha cambiato pelle pur senza cadere in eccessi barocchi. Il nuovo album If I Can’t Have Love, I Want Power è la perfetta unione di ricerca stilistica e conservazione delle qualità per cui si è fatta amare dal suo pubblico

Autore Federico Durante
  • Il27 Agosto 2021
Halsey: una metamorfosi rock nel nuovo disco prodotto da Trent Reznor

Halsey (fonte: ufficio stampa)

Sin da quando sono stati rivelati i primi dettagli del nuovo album di Halsey – titolo, copertina, produzione a cura di Trent Reznor e Atticus Ross dei Nine Inch Nails – era chiaro che If I Can’t Have Love, I Want Power sarebbe stato una release da seguire con particolare attenzione. Un deciso cambio di rotta per un’artista che – nonostante il talento e le numerose sfaccettature – è stata quasi sempre etichettata sbrigativamente come “cantante pop”. La recente maternità di Halsey ha giocato in questa metamorfosi un ruolo cruciale.

La sfida di Halsey

L’operazione può dirsi riuscita. Non per la potenza degli ovvi aspetti legati all’empowerment femminile, dimensione che dà identità all’album in maniera palese, al limite del barocco. Bensì per la capacità di operare un simile salto di qualità senza perdere quelle cifre distintive che il suo pubblico ha sempre amato: sincerità e intensità emotiva, tono confidenziale da amica d’infanzia, dark humour.

Ascoltando il disco, infatti, si nota come la dimensione da “opera”, da concept album vecchio stampo, sia in fin dei conti relativa. E questo è un bene. If I Can’t Have Love, I Want Power è prima di tutto una collezione di dodici brani fortemente ispirati e magnificamente prodotti. Il suo pregio è che in un periodo in cui le popstar affermate fanno i dischi più “pop” possibili (e ci mancherebbe), Halsey ha scelto di andare in direzione completamente opposta, confezionando un album spigoloso e scomodo, che richiede un ascolto immersivo.

Una produzione di primo piano

L’aspetto della produzione è quantomai determinante. Trent Reznor e Atticus Ross – duo imbattibile che oltre al lavoro con i Nine Inch Nails si è specializzato nella realizzazione di colonne sonore: The Social Network, Gone Girl, Watchmen, per esempio – imprimono all’album di Halsey una veste sonora ricercata e di ampio respiro dinamico. Armonie imprevedibili e ambigue, elementi di poliritmia, giusto dosaggio di pieni e di vuoti. Sono tutti aspetti che musicalmente ci portano lontano dal solito disco pop.

La cifra stilistica dei NIN è già evidente a partire dalla opening track The Tradition, con quelle sue armonizzazioni di pianoforte un po’ inquietanti di derivazione industrial. Ma è con il rock distorto di pezzi come Easier Than Living, You Asked for This, Honey, The Lighthouse che il disco trova la sua dimensione specifica. Del resto, la componente rock and roll di Halsey non era mai stata un mistero, dai suoi live a pezzi come 11 Minutes con Yungblud.

Una piccola digressione sul rock. Dopo essere stato dato per spacciato nel corso degli anni ’10, il genere è rientrato dalla finestra senza che lo stesso pubblico rock se ne accorgesse. Il merito è soprattutto delle nuove popstar. Brani di enorme successo come Brutal di Olivia Rodrigo o Happier Than Ever di Billie Eilish sono indubitabilmente classificabili come rock. Semplicemente, “rock” sta diventando una modalità di arrangiamento, una scelta espressiva: un po’ come quando un artista fa il pezzo jazzato o in stile reggae perché ciò si addice all’economia della canzone.

Temi e suggestioni

È degna di nota la bella Darling, una sorta di intermezzo acustico con la chitarra del grande Lindsey Buckingham (Fleetwood Mac). Insieme alla traccia conclusiva Ya’aburnee costituisce una dolcissima dedica al figlio Ender Ridley. Il titolo di quest’ultimo brano è una parola araba che esprime il desiderio di morire prima di una persona amata, perché il contrario sarebbe insopportabile. Oltre a Buckingham, sono presenti nell’album altri due ospiti eccellenti: Dave Grohl su Honey e il bassista Pino Palladino su Lilith.

Empowerment, si diceva. Anche in questo caso è la traccia iniziale The Tradition a mettere subito in chiaro le cose. “Take what you please, don’t give a damn / Ask for forgiveness, never permission”, recita il ritornello. Il tema prosegue poi attraverso tracce come Girl Is a Gun (“This girl is a gun, before you know it, it’s done / And you’ll be wishin’ that you crossed your fingers / Oh, but God, is it fun when you can have more than one / So let me show you how to touch my trigger”). Oppure nella focus track dal titolo-manifesto I Am Not a Woman, I’m a God.

Ma c’è anche una componente di cupezza piuttosto spiccata, figlia di quel suo dark humour che dicevamo prima ma anche – forse – della prossimità con lo spirito dei Nine Inch Nails. Per esempio: “I sleep with one eye open and one eye closed / ‘Cause I’ll hang myself if you give me rope” (Easier Than Lying); “I wanna ruin all my plans / I want a fist around my throat / I wanna cry so hard, I choke” (You Asked for This); o ancora, “Well, that should teach a man to mess with me / He was never seen again and I’m still wanderin’ the beach / And I’m glad I met the Devil ‘cause he showed me I was weak / And a little piece of him is in a little piece of me” (The Lighthouse).

Ascolta If I Can’t Have Love, I Want Power di Halsey in streaming

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