Lizzie Thomas fra American Songbook, classici natalizi e apertura verso nuovi sound
Cresciuta musicalmente nell’ambiente jazz newyorkese, con l’album “Awakening” e l’EP “This Christmas” la cantante si è presa la libertà di sfidare le aspettative
Una passione musicale che affonda le radici nell’amore per il Great American Songbook e per i grandi standard del jazz, ma con un’attitudine per l’esplorazione di sonorità “altre”. Lizzie Thomas è il perfetto prodotto della scena di New York, «la capitale mondiale del jazz», come la definisce lei appropriatamente. Una scena tanto ricca quanto, spesso, ingabbiata in schemi precostituiti.
Nei suoi ultimi lavori infatti – l’album di inediti Awakening e l’EP natalizio This Christmas – Lizzie Thomas si è presa la libertà di ascoltare più la sua voce e l’anima delle canzoni che le aspettative dei puristi del genere. Di qui le coloriture neo-soul, R&B e pop, nonché il ricorso a una strumentazione lontana dai canoni del jazz acustico con i quali si è formata ed è cresciuta musicalmente.
Awakening è stato registrato al leggendario studio Power Station di New York con la partecipazione dell’Harlem String Quartet. A lungo celebrata per le sue reinterpretazioni di jazz standard, con questo disco Lizzie Thomas rivela un nuovo livello di originalità, avendo scritto lei stessa tutti i brani.
This Christmas invece, concepito nello stesso periodo di Awakening, contiene una rivisitazione fresca e soul dei classici natalizi, con la partecipazione di musicisti jazz di alto livello: John Di Martino al pianoforte, Wayne Escoffery al sassofono, Dezron Douglas e Noriko Ueda al basso, Kevin Sibley al B3 Hammond, Leandro Pellegrino alla chitarra acustica e Neal Smith alla batteria. L’EP viene ora ristampato anche in Europa in versione vinile verde scintillante da 10 pollici in edizione limitata.
Con l’avvicinarsi del periodo delle feste, abbiamo raggiunto telefonicamente Lizzie Thomas per farci raccontare tutti i suoi progetti.

Ascolta Awakening di Lizzie Thomas
L’intervista a Lizzie Thomas
Da cantante ti cimenti con diversi generi musicali, ma il jazz è quello a cui sei più legata. Quando e come ti sei innamorata di quella musica? E quali sono i tuoi artisti preferiti di sempre?
Alcune delle artiste che mi hanno sempre ispirata sono Billie Holiday, Nina Simone, Carmen McRae, Sarah Vaughan. Ma anche Lester Young, J.J. Johnson, Miles Davis, Thelonious Monk, Louis Armstrong…
Ricordo la prima volta che ascoltai le canzoni dell’American Songbook: era un album di Linda Ronstadt con Nelson Riddle (bandleader e arrangiatore, ndr). Era la prima volta che sentivo quella musica. Ero teenager e mi dicevo: “Cos’è questa cosa?”. Prima di allora ascoltavo molto pop: Michael Jackson, Madonna, Sting e così via.
Mi sono buttata a capofitto nella musica di Billie Holiday per capire i segreti del suo modo di cantare. In generale il suo più grande insegnamento per me è stato di non cantare nulla che tu non senta profondamente.
Il tuo nuovo album Awakening segna un’evoluzione del tuo sound da più punti di vista. Quali innovazioni hai apportato in studio?
Con questo disco volevo esplorare le ragioni che stanno a dietro tante cose. Ho messo in discussione ogni aspetto della mia vita, non solo personalmente ma anche musicalmente. Ho dissezionato tutte quelle cose che non rappresentavano la mia essenza, quello che sono. Ripensando la mia musicalità jazz (come cantante, come musicista), ho iniziato a provare il desiderio di esprimermi in un modo che mi rappresentasse più autenticamente.
Si sente che Awakening affonda le sue radici nel jazz, ma dal punto di vista strumentale ho fatto alcuni cambiamenti: introducendo il basso elettrico al posto del contrabbasso, usando per la batteria una grancassa più grande per un sound più vicino al soul e all’R&B, usando l’organo Hammond B3 (che non era tipico delle mie precedenti registrazioni), introducendo la chitarra elettrica con un sound molto bluesy. Ho ascoltato quello che le canzoni mi volevano dire, il modo in cui volevano essere espresse. E così ho trovato dentro di me uno spazio di vera libertà.
Parlando dell’album hai detto infatti: “Finalmente mi sono data il permesso di proclamare la mia voce”. Come mai non ti sei data questo permesso prima? Ti preoccupava la possibile reazione di alcuni ascoltatori?
Sì. Sai, può non essere semplice essere una musicista jazz a New York – la capitale mondiale del jazz – e dire cose come: “Nella mia band non voglio un contrabbassista”. E lo dico io che ho collaborato con Ron Carter (probabilmente il più grande contrabbassista jazz vivente, ndr). Per cui la reazione poteva essere del tipo: “Ma come osa?”. Ed è proprio così che ho approcciato il disco: ho “osato” credere che ciò che ho creato merita di essere ascoltato.
Ci sono tanti puristi del jazz a New York?
Sì, ma del resto in qualunque forma d’arte esistono i puristi e gli sperimentatori. E, come in qualunque arte, ti puoi ritrovare ingabbiato. Il punto è che ciò che ti rappresenta in modo autentico è la cosa giusta da seguire.
Con il grande Ron Carter hai registrato Willow Weep for Me in una versione molto particolare: solo voce e contrabbasso. Raccontami meglio questa esperienza con un vero gigante del jazz.
Il Maestro Carter non è solo un musicista eccezionale ma anche una splendida persona. È stato molto facile lavorare con lui, anche perché il suo obiettivo era servire al meglio la canzone. Ho scelto quella canzone non solo per far risaltare la sua bravura come musicista ma anche per far parlare il brano in sé. In studio abbiamo fatto appena tre take e poi era pronto, e lui è stato di grande incoraggiamento. Vado a vederlo in concerto a New York ogni volta che posso ed è sempre un’esperienza formativa.
Il tuo processo di songwriting si basa su una certa attitudine spirituale: spesso ti vengono gli spunti per le canzoni nei sogni o in stati meditativi.
All’inizio non scrivevo canzoni originali perché pensavo che ce ne fossero già abbastanza nell’American Songbook e nel canone jazz. Ma poi ho iniziato a fare sogni in cui sentivo melodie o intere canzoni, oppure mi venivano in mente spunti musicali mentre camminavo per strada.
C’è una canzone intitolata Le Train Bleu (With One More) che fondamentalmente ho scritto una sera a cena al ristorante Le Train Bleu di Parigi. In questi casi registro note vocali per tenere traccia delle idee e poi le sviluppo meglio al pianoforte.
Alcune canzoni vengono molto velocemente, per altre invece ci ho lavorato per un anno intero. La scrittura delle canzoni è un processo. Io le interrogo: “Che cosa vuoi raccontare?”. E loro mi rispondono. Cerco di mettere da parte il mio ego per entrare nelle vibrazioni della canzone in sé.
Ci avviciniamo al Natale. Tu hai pubblicato ben due album natalizi: Santa Baby e This Christmas. Quest’ultimo viene ora ristampato in Europa. In generale cosa rende il repertorio natalizio così adatto a una cantante jazz?
Quando eravamo in studio per registrare Awakening, volevo usare quel tipo di strumentazione di cui parlavamo prima anche per le canzoni di Natale. Per me This Christmas di Donny Hathaway, che dà il titolo all’album, è la canzone di Natale più cool che sia mai stata scritta. È un po’ la versione natalizia di quello che l’album Awakening rappresenta musicalmente.
Nel disco ho anche fatto bella mostra delle mie capacità di arrangiamento, come si può sentire nella cover di Wonderful Christmastime di Paul McCartney o Christimas Time Is Here dei Peanuts, scritta da Vince Guaraldi. Volevo insomma unire una classica espressività jazz ai classici del Natale che tutti amiamo, cosa che viene molto naturale perché lo spirito del jazz è prendere pezzi già esistenti e reinterpretarli in modo nuovo.
