“The Hurting” compie 40 anni: 5 curiosità sul primo album dei Tears For Fears
Con il disco d’esordio il duo fu tra i primi a cercare di fondere il synth pop più allegro e danzereccio degli anni ‘80 con testi tetri e riflessioni profonde sugli effetti a lungo termine causati dai traumi infantili
Pubblicato il 7 marzo del 1983, The Hurting è il primo disco dei Tears For Fears. Non si tratta del loro album di maggior successo (il più venduto sarà infatti Songs From the Big Chair del 1985) ma di quello che li ha fatti scoprire al grande pubblico, grazie al singolo spacca-classifiche Mad World. Quest’ultimo trainò tutto l’album fino al 1° posto della classifica UK, scalzando dalla cima nientemeno che Thrillerdi Michael Jackson.
Oggi sembra incredibile che un disco capace di un’impresa del genere sia stato spesso snobbato dalla storia della musica pop. Ma il suo problema di fondo è stato quello di essere uscito in un’epoca in cui c’erano due sottoinsiemi ben distinti: o eri una band pop di successo che faceva impazzire le ragazzine come i Duran Duran oppure eri un gruppo piuttosto profondo e acclamato dalla critica come i Joy Division (ai quali John Peel li aveva anche accostati).
I Tears For Fears spiazzavano tutti perché erano entrambe le cose. Con The Hurting sono stati tra i primi a cercare di fondere il synth pop più allegro e danzereccio degli anni ‘80 con testi tetri e riflessioni profonde sugli effetti a lungo termine causati dai traumi infantili.
A quarant’anni di distanza ecco allora cinque curiosità sull’album con cui i Tears For Fears hanno iniziato la loro terapia collettiva.
1. L’infanzia travagliata aka Suffer the Children
I Tears For Fears, per i pochi che non li conoscono, sono un duo musicale composto da Roland Orzabal e Curt Smith.
Si formarono all’inizio degli anni ‘80 in un quartiere popolare di Bath, in Inghilterra. Entrambi provenivano da famiglie disagiate i cui genitori avevano finito per divorziare lasciando i propri figli abbandonati a loro stessi. Almeno dal punto di vista del supporto emotivo, o come dicono loro stessi nella bellissima Pale Shalter (una sorta di canzone di disamore rivolta ai propri genitori), “non mi avete dato amore, ma solo mani fredde e un pallido rifugio”. E questo nonostante le continue richieste di attenzione affettiva: “I’m calling you, I’m calling you / I ask for more and more”, urlano i due ragazzi nel medesimo brano.
Tra i due la situazione più difficile è stata quella vissuta dal piccolo Orzabal. La madre era una spogliarellista che faceva le prove in casa insieme ad altre spogliarelliste. Il padre era una persona molto violenta: “C’è stata anche violenza domestica. Ci sono molte persone che hanno avuto un’infanzia difficile […] Tutti noi possiamo fare un gran parlare del fatto che eravamo bambini delle case popolari. Ma questa è stata la cosa che più mi ha turbato: il fatto che mio padre fosse fisicamente violento nei confronti di mia madre. La situazione è peggiorata a tal punto che alla fine se n’è andata”.
Altro brano esemplificativo del senso di abbandono sofferto dai due figli più famosi di Bath – fin dal richiamo biblico del titolo – è Suffer the Children.
Anche la copertina del disco è abbastanza eloquente da questo punto di vista. L’unico elemento che abbiamo è un bambino piccolo accovacciato in un angolo che si tiene disperatamente la testa fra le mani. Attorno a lui il nulla, solo uno sfondo bianco, che amplifica il senso di solitudine (“un figlio unico in uno spazio solo”) sul quale campeggia la scritta The Hurting, “La Sofferenza”.
2. Lacrime per paure – L’urlo Primordiale
Non a caso stiamo parlando di un gruppo nato con lo specifico intento di mettere da parte i soldi per pagarsi la terapia.
Nello specifico, verso i vent’anni i due cominciarono ad addentrarsi nelle teorie dello psicoterapeuta americano Arthur Janov, autore del libro “L’urlo primario”. La teoria alla base di tutto è quella della “tabula rasa”: un bambino alla nascita è come una tabula rasa, poi tutte le cose terribili che gli sono accadute – i traumi infantili, il rifiuto, la mancanza di amore – vengono soppresse nell’adolescenza e si manifestano come nevrosi in età adulta.
Il terapeuta allora cerca di scavare in profondità per far riemergere questi traumi e lasciarli sfogare, tramite il pianto – per questo il nome della band Tears For Fears (“Lacrime Per Paure”) – oppure tramite il cosiddetto “urlo primordiale”, ovvero un urlo liberatorio, che dovrebbe rievocare il primo trauma dell’essere umano, ovvero quello della nascita e del distacco dalla madre.
Sebbene la teoria sia priva di qualsiasi validità scientifica, ebbe comunque un periodo di grande successo in certi ambienti, tant’è che i Primal Scream hanno preso il loro nome da lì e John Lennon non solo l’aveva praticata, ma l’aveva persino messa in musica nell’album Plastic Ono Band (potete sentire il suo grido alla fine di Mother.
Nel disco dei TFF ci sono diversi riferimenti alle teorie di Janov. A partire dal dolore iniziale di The Hurting, che dalla traccia di apertura si dirama in tutto il disco, fino ad arrivare a brani che sono presi di peso da capitoli dei suoi libri – come Ideas as Opiates – o da libri interi come Prisoner (derivante da Prisoners Of Pain, altro caposaldo dello Janov-pensiero).
3. Non bisogna mai incontrare i propri idoli
Il disco ebbe così tanto successo da arrivare anche alle orecchie dell’uomo che lo aveva ispirato. Arthur Janov in persona una sera si palesò a un loro concerto. “Era a conoscenza del fatto che avevamo scritto l’album basandoci sulla teoria primordiale”, racconta Smith. “È venuto a uno spettacolo e ci sembrava di suonare davanti a Dio. È venuto nel backstage ed è stato incredibilmente gentile, invitandoci a pranzo”.
Purtroppo però l’incontro dal vivo non andò così bene come si aspettavano.
“Eravamo estremamente nervosi”, ha raccontato Orzabal. “Era l’equivalente di qualcuno di Scientology che incontra Ron Hubbard”, e chi conosce le teorie della religione americana considererà tutt’altro che azzardato il paragone. “Poi abbiamo scoperto che aveva scritto un musical. Già. Esattamente. Me ne sono andato pensando: ‘Hmm. Mai incontrare i propri eroi!’. Le parole del musical erano… peggiori dei miei testi, in realtà!”.
“Mi è sembrato sbagliato”, riassume Smith, “perché lo tenevamo così tanto in considerazione che ci è sembrato commercializzasse l’intera cosa. È come se Dio si presentasse in una giacca da pilota con gli sponsor”.
4. Il campionamento di Memories Fade fatto da Kanye West
Tra gli estimatori del disco dei Tears For Fears ci sono artisti più o meno insospettabili, da Billy Corgan a Gwen Stefani passando per John Grant e gli MGMT.
Ma ce n’è uno che non si è limitato ad essere un semplice fan e ha deciso di dimostrare il suo amore – diciamo così – campionando un intero brano dell’album: si tratta di Kanye West, che, essendo Kanye West, ha pensato di farlo senza nemmeno chiedere il permesso.
Memories Fade si è convertito così involontariamente nell’inverno più freddo di West, Coldest Winter, un brano che il rapper più famoso d’America ha dedicato alla morte della madre Donda e alla precedente compagna Alexis Phifer. La musica è perfettamente riconoscibile perché è rimasta praticamente la stessa, mentre il testo è stato cambiato, mantenendo comunque l’assonanza finale con il ritornello originale: “Memories fade but the scars still linger” (“I ricordi svaniscono ma le cicatrici rimangono”) è diventato “Memories made in the coldest winter” (“i ricordi riaffiorati nell’inverno più freddo”).
A proposito dell’accaduto i due commentato l’episodio sportivamente: “Sono rimasto sorpreso perché non me l’ha chiesto”, ha dichiarato Orzabal. “Ma quando la facciamo dal vivo, ora usiamo l’intro di Kanye West”.
“Come un ironico ‘fuck you!’”, ha aggiunto Smith. Anche perché vista la popolarità di West è fisiologico che molti non sappiano quale sia l’originale. “Abbiamo suonato dal vivo a Orange County un paio di anni fa e la nostra tata – che è più giovane e si occupa dei miei due figli quando lavoriamo – è venuta nel backstage e ha detto: ‘È fantastico che abbiate fatto quella canzone di Kanye West!’”.
5. La cover di Mad World in Donnie Darko
Nel caso della cover di Mad World, inserita nella colonna sonora del film del 2001 Donnie Darko, invece, le cose sono state più regolari. Innanzitutto perché si tratta di una cover autorizzata. In secondo luogo, perché in ogni caso il brano originale lo conoscono tutti, essendo stata una grandissima hit degli anni ’80, benché il testo cupo sull’apatia, la depressione e l’insensatezza del vivere moderno si sposasse poco bene con la musica.
“I sogni in cui muoio sono i migliori che abbia mai avuto”, dice a un certo punto il ritornello. Una frase che, senza fare spoiler, inserita nel contesto della scena finale del film cult di Richard Kelly, assume un significato ancora più pregnante.
Ecco allora che la cover al rallentatore di Gary Jules, musicalmente scarnificata e poeticamente ridisegnata dal video di Michel Gondry, non solo non ha danneggiato il brano originale, ma gli ha dato nuova linfa vitale (o mortale a seconda dei punti di vista), portandolo alla sua essenza più pura, nonché nuovamente in cima le classifiche a vent’anni di distanza. Il brano perfetto per il finale perfetto di un film in cui si parla di viaggi nel tempo, ma anche e soprattutto di disagio giovanile, adolescenze complesse, violenza domestica, bullismo, disturbi mentali, terapia, paura, insicurezza, grida d’aiuto e tanto bisogno di affetto.
Se c’è un altro viaggio nel tempo meritevole che possiamo fare oggi è sicuramente quello di riascoltare questo disco meraviglioso dall’inizio alla fine. Ma ascoltarlo veramente.
Articolo di Andrea Pazienza