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I The Script rinviano le date italiane del tour – Intervista

A causa di una brutta bronchite del frontman, i The Script sono stati costretti ad annullare le due date italiane della loro tournée di “Freedom Child”. La nostra intervista alla band

Autore Giovanni Ferrari
  • Il12 Marzo 2018
I The Script rinviano le date italiane del tour – Intervista

Ci incontriamo nel primo pomeriggio di venerdì 9 marzo. Fuori dal Forum di Assago c’è ancora un po’ di freddo, ma c’è anche un numero non indifferente di fan, in fila per accaparrarsi i posti migliori del parterre. Quella sera c’era in programma concerto dei The Script, band irlandese ora impegnata in una tournée mondiale che prende il titolo dal loro ultimo album, Freedom Child.

Ma in pochi minuti gira la voce dell’annullamento della data: il frontman Danny O’Donoghue, infatti, ha una brutta bronchite (motivo per il quale aveva già annullato il concerto della sera prima, previsto a Zurigo). Le date del 9 marzo al Forum di Assago (Milano) e del 13 marzo al Gran Teatro Geox di Padova sono state annullate, con una grande possibilità che siano recuperate nei prossimi mesi.



Abbiamo incontrato gli altri due componenti della band Mark Sheehan e Glen Power, che come prima cosa hanno voluto scusarsi con i propri fan: «Non abbiamo mai cancellato uno show in dieci anni di carriera. Penso che ognuno sappia quanto ci teniamo a suonare ai concerti. È una cosa davvero brutta dover cancellare un live. Abbiamo aspettato il più possibile, per capire se ci fossero le condizioni per salire sul palco, ma purtroppo non è stato così. La salute è la salute. Ci dispiace per i fan che sono venuti fino a qui. Danny pensava di stare meglio entro stasera. Vogliamo fare uno show bello, rispettoso nei confronti dei nostri fan: ma torneremo», hanno rassicurato.

Il vostro disco Freedom Child è uscito dopo tre anni di silenzio. Quanto è importante il tempo nel mondo della musica?

Noi siamo convinti che bisogna vivere la vita e fare esperienze, soprattutto quando sei abituato a scrivere canzoni come se fossero un diario personale. Noi scriviamo solo ciò che viviamo. E quindi per scrivere hai bisogno di vivere una vita normale, fatta di quotidianità. L’album è la fotografia del tempo in cui è stato realizzato. Non pubblicheremo mai delle canzoni scritte dieci anni fa. È importantissimo prendersi del tempo per capire cosa vuoi dire, cosa vuoi fare. In questi ultimi anni il mondo è cambiato.

In che modo?

A livello economico, politico e sociale è cambiato molto. Le cose stesse intorno a noi sono cambiate. Un esempio? La questione dei migranti, che ci sembra viviate anche voi in Italia. Il terrorismo ci rende più impauriti. La musica, da questo punto di vista, può essere un momento di gioia. Anzi, lo deve essere. Non deve esistere il terrore di essere uccisi in una sparatoria durante un concerto. Noi vogliamo promuovere la libertà. Non dobbiamo lasciare che il terrorismo ci fermi. Ma non è un processo facile. Non basta alzare il braccio e gridare “Libertà!”.



Pensate che la musica possa aiutare a smuovere le coscienze?

La musica non è una cura, noi non vogliamo curare i problemi delle persone. Non ce ne frega proprio nulla di fare politica. Non ci interessano presidenti, re e regine. A noi interessano le persone. Ci interessa la gente che viene ai nostri concerti, che vuole confrontarsi. Ma attenzione: i ragazzi più giovani sono molto malleabili. Se testimoni loro l’odio, loro odieranno. Bisogna cercare di convincere i più giovani a scegliere il bene.

Mark, tra le altre cose questo disco è nato dalla domanda di tuo figlio “Cos’è il terrorismo?”. È così?

Esatto. Hanno fatto una lezione a mio figlio di 7 anni per spiegargli come scappare da scuola in caso di attentato terroristico. Gli hanno spiegato alla perfezione dove correre in caso di allarme, come uscire da scuola, quale porta aprire. Ma non gli hanno assolutamente detto da cosa potrebbero scappare. Così, una volta arrivato a casa, mio figlio mi ha chiesto cosa fosse il terrorismo. Potevo mettermi lì a spiegare, dettaglio per dettaglio. Ma poi ho deciso di scrivere una canzone, una lettera dedicata a lui, che poi è diventata la title track del disco.

Ogni band ha un rapporto differente con i propri cavalli di battaglia. Alcuni li rinnegano e si stancano a riproporli a ogni concerto. Altri, invece, ne sono sinceramente legati e provano un senso di gratitudine nei confronti di queste hit. Qual è la vostra posizione?

Se le persone cantano le tue canzoni, allora è una cosa positiva. Bisognerebbe esserne molto felici e basta. La nostra musica è per tutti. Ogni volta che le persone pagano un biglietto per vederti, allora devi rispettarli. Non possiamo non fare certi pezzi. I nostri fan vogliono ripercorrere il nostro passato e il nostro presente musicale. E noi vogliamo dargli ancora di più. Dal punto di vista di una band come la nostra è anche stimolante il fatto di suonare a ogni show certe canzoni: ci sentiamo spronati a relazionarci in modi sempre differenti ai brani. È sempre diverso. Ogni sera, ogni città, ogni concerto. È sempre tutto diverso.



Una curiosità. Conoscete e ascoltate qualche artista italiano?

Non parliamo italiano e quindi per noi è un po’ complicato ascoltare musica del vostro paese. Ma ti diciamo una cosa: quando il Titanic stava per affondare, l’orchestra ha continuato a suonare. Tanti uomini hanno continuato a suonare, nonostante fossero a pochi istanti dalla loro morte. Lo sapevano benissimo, ma hanno voluto continuare. Perché la musica è così, va oltre a tutto. E supera anche le barriere linguistiche. Quando la situazione economica, politica e sociale va verso il nulla, la musica a volte può aiutare. In italiano, giapponese, irlandese. La musica è un linguaggio internazionale.

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