1977-1979: un biennio fantastico a 45 giri, parola di Jon Savage
In quel breve lasso di tempo successe di tutto nella musica e la recente compilation Jon Savage’s 1977-1979 – Symbols Clashing Everywhere è uno dei migliori esempi di raccolta intelligente del periodo, che proprio l’autore ci racconta
Punk, post-punk, industrial, new wave, dub, Euro disco sono alcuni dei termini che entrarono in circolazione nel lessico musicale, segno di una proliferazione di generi e nuove estetiche che segnarono indelebilmente un periodo brevissimo ma ricco della musica giovanile.
Il saggista e critico musicale Jon Savage (vi ricordiamo di procurarvi il fondamentale saggio L’Invenzione dei giovani, ed. Feltrinelli) sta da alcuni anni curando una serie di compilation per la ACE Records che si concentrano su alcuni anni fondamentali per la musica. Sono già usciti già ben sette volumi (dedicati alla seconda metà degli anni ’60 e poi uno sul biennio 1972/1976).
Jon Savage’s 1977-1979 – Symbols Clashing Everywhere è il nuovo volume. Come per le altre compilation, non aspettatevi un’accozzaglia di canzoni conosciute o una playlist sotto il segno dell’algoritmo. Piuttosto, una personalissima selezione che pesca tra brani diventati addirittura degli archetipi come Warm Leatherette dei The Normal o Neat Neat Neat dei The Damned. Ma anche geniali riscoperte come Dontsplitit dei Subway Sect e gustose “operette pop” come Eine Symphonie Des Grauens dei The Monochrome Set.
Ecco in esclusiva un estratto dal libretto che accompagna il doppio CD e i commenti su tre canzoni. Nel numero di marzo di Billboard Italia trovate un altro, più ampio estratto.
Niente più sogni di accordi misteriosi
In quel biennio la mia situazione cambiò: avevo smesso di essere un semplicemente un consumatore di musica e ne divenni un “operatore”. Entrare a far parte di Sounds come collaboratore freelance regolare nell’aprile 1977 significava che avevo accesso a dischi gratuiti, ero accreditato a tanti concerti, uno dei tanti privilegi in qualità di redattore sui settimanali.
Significava anche che dovevo stare sempre sul pezzo, era necessario avere un’idea di cosa ci fosse in classifica, oltre ad andare a due spettacoli a notte e ad ascoltare dozzine di nuovi dischi in negozi come Rough Trade. La musica – ascoltarla, discuterne, socializzare al suo interno – era diventata la mia vita.
Il modo in cui lavorava la stampa musicale era che, dopo un po’ di ambientazione in redazione – passando da piccole recensioni di concerti e di dischi a recensioni più corpose e interviste più lunghe – si diventa più conosciuti per il fatto di curare una scena particolare.
Durante il 1977 a Sounds ho scritto principalmente sul punk, ma con il passare dell’anno ho iniziato a occuparmi di psichedelia storica, reggae e dub, dischi indipendenti americani e britannici e, in New Musick – il lungometraggio di November Sounds che ho curato insieme a Jane Suck – futuro dell’elettronica.
Come potete immaginare, mi furono inviate dozzine di dischi di quei generi. Un mix di punk, reggae, dub, sperimentazione indipendente – inclusa la psichedelia della fine degli anni ’70 – e quantità crescenti di elettronica. Tutto questo era il mio “punto fermo” in quegli anni.
Reggae e dub sono sono arrivati durante la mia esperienza di vita a Londra: era quello che sentivo in giro per North Kensington, Shepherd’s Bush e in negozi come Acme Attractions, gestito da Don Letts e Jeannette Lee. Rough Trade importava regolarmente dischi reggae e ci andavo quasi tutte le settimane.
Nella maggior parte dei casi, il formato 7″ era la cosa giusta. Il punk accentuava la brevità e l’accelerazione, e il singolo era la forma perfetta per i nuovi gruppi senza molto repertorio. Scegli la tua canzone migliore, colpiscila, tirala fuori, vai avanti.
Un’altra attrazione era il design di copertina – un’innovazione presa dalla cultura pop retrò – che offriva l’opportunità di declinarlo in manifesti, affissioni, un modo economico e allegro di presentare visivamente la musica che sarebbe poi stato ripreso dai videoclip pop. Molti singoli del periodo erano un “pacchetto unico” di musica, design e attitudine.
Con mio rammarico, non ero ossessionato dalle discoteche, anche se, come molti altri nella mia sottocultura, avevo una simpatia per i brani con la parte ritmica elettronica come in Ring My Bell di Anita Ward e in un pezzo esageratamente melodrammatico come Tragedy dei Bee Gees.
Ho adorato la high synth disco di Donna Summer e Sylvester. Dopotutto, erano moderne al massimo – cosa che il punk aveva affermato di essere – ma, siccome in quel periodo ero intimamente connesso con il post-punk, non scrissi né avrei potuto scrivere su di loro.
Come le altre compilation di questa serie della ACE Records, la selezione dei brani riflette ciò che stavo ascoltando in quel periodo. Ciò significa che c’è pochissima disco, pochissima new wave classica, ma un’effervescente serie di tracce che incrociano diversi generi: punk, post-punk, elettronica, dub, Euro disco e pezzi unici, come Dontsplitit dei Subway Sect o White Night dei Lines – che rivelano un periodo musicale turbolento e altamente creativo che rifletteva un mondo esterno diviso e sempre più duro. Era la fine degli anni ’70: i simboli cozzavano ovunque.
Ma prima, quel doppio numero… Il 1944 aveva visto l’invenzione dell’adolescente con il lancio della rivista Seventeen. Il 1955 ebbe James Dean, Little Richard ed Elvis; Il 1966 fu il picco degli anni ’60. Ma il 1977 sarebbe stato un’altra cosa. E sarebbe stato rivelatore il 45 giri.
Iggy Pop, The Passenger
La grande notizia per gli amanti del punk a inizio 1977 fu il ritorno di Iggy Pop. Una sorta di resurrezione, con una serie di date dal vivo a partire da marzo e un nuovo album, The Idiot, pubblicato quel mese.
Furono i primi frutti della sua collaborazione con David Bowie, che, come già fatto con Low (uscito a gennaio 1977), sfoggiava un suono più europeo, utilizzando elettronica e beat motorik al posto della cruda potenza chitarristica degli Stooges. Allo stesso modo, i concerti di Iggy contenevano il lato selvaggio in favore di una presenza scenica più controllata.
Registrato agli studi Hansa di Berlino (appena prima di Heroes di Bowie), Lust for Life fu il secondo album di Iggy nel giro di neanche sei mesi. Più uptempo di The Idiot, conteneva questo classico (inspiegabilmente relegato al lato B del singolo Success pubblicato nel Regno Unito) che ti porta in un viaggio di quasi cinque minuti di claudicante beat motorik: “Get into the car / We’ll be the passenger / We’ll ride through the city tonight / See the city’s ripped backsides / We’ll see the bright and hollow sky / We’ll see the stars that shine so bright / Oh, stars made for us tonight”.
The B-52’s, 52 Girls
Nati ad Athens, Georgia, nel 1976, I B-52’s presero il nome da un’acconciatura anni ’50 ad alveare che ricordava il muso del noto bombardiere. 52 Girls era il lato B del loro primo singolo, Rock Lobster. In linea con il nome della band, si concentrava sulla cancellazione delle donne dalla storia. Il testo nomina 22 donne, giungendo al culmine con la celebre “Jackie-O” (Jacqueline Kennedy, ndt), quando Kate Pierson e Cindy Wilson chiedono: “These are the girls of the USA: can you name, name, name them today?”.
Basata su una vivace ritmica di batteria ed eseguita con finezza minimalista, 52 Girls fu – insieme al suo A-side – un notevole biglietto da visita. Nel giro di un anno, la band firmò con Island Records, pubblicando a luglio 1979 l’album d’esordio eponimo. Conteneva una nuova registrazione di 52 Girls fra i primi brani in tracklist. Ma questa prima versione grezza ha tutto: l’entusiasmo della prima volta e un melodismo intrigante.
Tubeway Army, Are “Friends” Electric?
Lunga (quasi cinque minuti e mezzo) e sfornata da un gruppo relativamente sconosciuto, questa fu la grande hit della primavera del 1979, nonché l’unica #1 in classifica di questa compilation. Are “Friends” Electric? costruisce uno scenario distopico dove – in un gelido, squallido mondo futuro – l’amore è disponibile solo da robot sessuali, ovvero gli “amici” del titolo: “You know I hate to ask/ But, are ‘friends’ electric? / Mine’s broke down/ And now I’ve no one to love”. Il testo è pieno di rimorso e di vasto, oceanico senso di perdita.
Caratterizzata dalla voce impassibile di Gary Numan, da un tempo medio e da synth taglienti, la canzone fu un capolavoro di alienazione, dalla vasta risonanza. Quella e il successivo singolo Cars furono un perfetto uno-due che – per un momento – rese Numan la star più fulgida del Regno Unito (i suoi concerti estivi quell’anno furono pieni di ragazzine urlanti), oltre a introdurre il synth pop nel mercato discografico. Pazzesco, poi, scoprire che Numan scrisse, produsse e arrangiò questo conturbante pezzo tutto da solo.