50 anni di “L.A. Woman”, l’ultimo album dei Doors
Il 19 aprile 1971 usciva nei negozi quello che sarebbe stato il capitolo finale della fulminante carriera della band guidata da Jim Morrison (che morirà pochi mesi più tardi)
Quando nel 1971 L.A. Woman dei Doors arrivò nei negozi, lunedì 19 aprile, Jim Morrison si trovava da circa sei settimane a Parigi. Lì si era ricongiunto alla compagna Pamela Courson e sarebbe morto nelle prime ore di sabato 3 luglio. Anche l’annuncio del decesso arrivò ufficialmente dopo la sepoltura, avvenuta mercoledì 7 nel cimitero di Père-Lachaise, in punta al boulevard di Belleville caro a Pennac. Là riposa in compagnia di un’infinità di altre celebrità. Tra queste, Molière, Honoré de Balzac, Fryderyk Chopin, Oscar Wilde, Marcel Proust, Édith Piaf e Maria Callas.
La preparazione del sesto album da studio del quartetto californiano partì ai Sunset Sound Recorders di Hollywood, già sede della registrazione dei primi due long playing. I Doors erano affiancati da Paul Allen Rotchild, produttore di tutti i dischi precedenti. Tuttavia questi se ne andò quasi subito sbattendo la porta. Era insoddisfatto del materiale e indispettito dal comportamento ondivago di Morrison. «Jim aveva un brutto aspetto. Era infelice del suo ruolo di sex symbol nazionale e dopo il processo per oscenità a Miami faceva di tutto per demolirlo. Aveva la barba lunga ed era ingrassato, sembrava il figlio di Orson Welles. Me ne andai perché mi ero stufato di trascinare i Doors da un disco all’altro. Specialmente con Jim così recalcitrante e nei fatti esaurito», spiegò in seguito.
Ultimarono il lavoro nella sala prove del gruppo, in Santa Monica Boulevard. Edificio contiguo a motel economici, spacci di liquori e locali da spogliarello e burlesque. A quel punto Morrison concesse un’intervista al Village Voice: «Con questo album abbiamo fatto davvero in fretta, tipo una canzone al giorno, cosa insolita per noi. Un po’ come il primo disco, in parte perché siamo tornati alla strumentazione di allora: noi quattro e un bassista». A breve avrebbe compiuto 27 anni, ma nell’immagine di copertina ne dimostra molti di più. «In quella foto si vede la morte aleggiare su Jim Morrison. Stava seduto perché era ubriaco. Un medium avrebbe intuito che quel tizio se ne stava andando. Portava addosso un peso enorme. Non era più il giovane poeta che avevo conosciuto sulla spiaggia di Venice», raccontava Ray Manzarek.
I concerti tenuti a registrazioni concluse furono gli ultimi della band. Un doppio show l’11 dicembre 1970 alla State Fair Music Hall di Dallas e quello della sera seguente al Warehouse di New Orleans. Lì Morrison – visibilmente alterato dall’alcol – diede la sensazione di non farcela più, smettendo a un certo punto di cantare. Constatatane l’inaffidabilità, gli altri tre decisero di annullare le quattro date programmate in gennaio al Madison Square Garden di New York.
Un successo scandaloso
I nodi avevano cominciato a venire al pettine nel marzo 1969, dopo che in autunno Morrison aveva espresso l’intenzione di abbandonare il gruppo. Salvo cedere poi all’insistenza di Manzarek affinché rimanesse, nonostante fossero tutt’altro che sanate le tensioni in seno alla band, causate dalla sua attitudine autodistruttiva.
Il primo del mese i Doors dovevano aprire la tournée propedeutica all’imminente album The Soft Parade esibendosi al Dinner Key Auditorium di Miami, stipato oltre i limiti della capienza da circa 12mila spettatori. Morrison aveva perso l’aereo e si era presentato in extremis, più ubriaco del solito. La sua performance fu disordinata e vacillante, in un crescendo di provocazioni, finché – sfregandosi la maglietta bagnata sull’inguine – disse: «Volete vedere il mio uccello, vero? Non siete qui per quello?!?». Nel caos conseguente, finì giù dal palco e si mescolò alla folla. Ricomparve quindi sulla balconata che sormontava la platea, dove ormai il caos era incontrollabile. Lo show terminò così.
Passati quattro giorni, le autorità giudiziarie della contea – sollecitate dalla pressione crescente dei media locali e di alcuni politici – emisero un mandato di arresto per James Douglas Morrison, “detto Jim”, accusato di atto osceni in luogo pubblico, turpiloquio e ubriachezza molesta. Nell’ultima intervista, il 12 marzo 1971 a Parigi con il cronista di Rolling Stone Ben Fong-Torres, affermò: «In un certo senso credo sia stato il culmine della nostra carriera come performer di massa. Penso che, inconsciamente, in quel concerto io volessi svelarne l’assurdità e ci sono riuscito benissimo».
Il danno era fatto. Il quartetto dovette cancellare quasi tutti gli spettacoli successivi e scelse di rifiutare l’offerta di comparire in agosto al festival di Woodstock. Avevano già mancato nel giugno 1967 un altro appuntamento con la storia, non essendo stati invitati dagli organizzatori al raduno di Monterey. Un autentico paradosso, considerando che si trattava della vigilia della Summer of Love, di cui per acclamazione divenne inno Light My Fire, il 45 giri più venduto negli Stati Uniti per tre settimane a cavallo tra luglio e agosto, quando l’Evening Post definì i Doors «i Norman Mailer dell’hit parade».
Al termine del processo per i fatti di Miami, il 30 ottobre 1970 l’imputato venne condannato a sei mesi di reclusione e 500 dollari di multa. Morrison rimase comunque libero in attesa del procedimento di appello, che però non avrebbe mai avuto luogo. Il 9 dicembre 2010, infine, su iniziativa del governatore della Florida Charlie Crist, gli è stata concessa la grazia postuma.
La leggenda del Re Lucertola
Al termine del calvario giudiziario la band si mise dunque al lavoro sull’album destinato a onorare la reputazione costruita nell’arco di un quinquennio scarso di attività discografica. In qualche modo riuscì nell’impresa: accolto favorevolmente dai media e confortato da un buon andamento commerciale, L.A. Woman proseguiva con marcato accento blues – si veda la cover dello standard Crawling King Snake – nel solco del suono ruvido ritrovato nel precedente Morrison Hotel, dopo le orchestrazioni barocche di The Soft Parade.
Da Love Her Madly, battistrada a 45 giri, fino al classico Riders of the Storm, passando dalla title track – con la celebre esortazione Mr. Mojo Risin’, anagramma delle generalità dell’autore – e recuperando L’America, brano che Michelangelo Antonioni non aveva utilizzato nella colonna sonora di Zabriskie Point, il repertorio era di assoluto valore. Sarebbe stato tuttavia l’ultimo long playing dei Doors con Morrison in formazione. A tragedia avvenuta, il gruppo tentò di proseguire in trio, ma i risultati – gli album Other Voices e Full Circle – furono deludenti.
Altrettanto si può dire di An American Prayer, confezionato utilizzando registrazioni della voce recitante del defunto musicate in differita dagli altri tre e pubblicato nel 1978, anticipando di un paio d’anni la romanzatissima biografia Nessuno uscirà vivo di qui firmata da Jerry Hopkins e Danny Sugerman.
Il mito del Re Lucertola frattanto s’ingigantiva, anche attraverso il cinema. Dopo aver fornito ispirazione in tempo reale alla definizione del personaggio interpretato da Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi, film alla cui sceneggiatura contribuì la cineasta belga Agnès Varda, da lui frequentata durante il soggiorno parigino, nel 1979 ci furono le scene memorabili di Apocalypse Now che Francis Ford Coppola volle sonorizzare con The End e nel 1991 arrivò il discutibile biopic firmato da Oliver Stone.
Assurto così allo status di culto, terzo in ordine di sparizione nella sventurata trinità completata da Jimi Hendrix e Janis Joplin, James Douglas Morrison è idolo che continua a essere venerato ancora ai giorni nostri. L’imminente cinquantenario della scomparsa sarà celebrato in grande stile da un volume di quasi 600 pagine edito a giugno da HarperCollins: The Collected Works of Jim Morrison, collezione di poesie, diari e testi di canzoni, per una metà abbondante inediti, con corredo di foto, disegni e prefazione dello scrittore Tom Robbins.