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Bad Religion, leggi il primo capitolo della loro autobiografia in esclusiva

Do What You Want, l’autobiografia dei Bad Religion, è appena uscito per Sabir Editore. Vi anticipiamo qui il primo capitolo

Autore Billboard IT
  • Il6 Dicembre 2020
Bad Religion, leggi il primo capitolo della loro autobiografia in esclusiva

at the Vex, Mar 1981 Credit Gary Leonard

È uscita da poco l’autobiografia scritta insieme a Jim Ruland Bad Religion. Do What You Want’ La Storia dei Bad Religion per Sabir Editore, un avventuroso racconto – ovviamente in stile punk con rutilanti e irriverenti passaggi – che farà felice ogni fan della storica band losangelina. Formatisi nel 1980 i Bad Religion di Greg Graffin, Brett Gurewitz e Jay Bentley hanno deciso di festeggiare i 40 anni di ininterrotta attività con questa attesissima biografia. Noi (grazie a Goodfellas che distribuisce il volume) vi offriamo in lettura il primo capitolo e nel frattempo potete ascoltare anche questa playlist ad hoc.

 BENVENUTI ALL’INFERNO

La storia della scena punk di Los Angeles muove i suoi primi passi a Hollywood, ma molte delle personalità delle origini provenivano dalla San Fernando Valley. Una delle prime band di L.A. a lasciare il segno, i Dickies, era della Valle. Quando Lee Ving diede vita ai Fear, viveva a Van Nuys. John e Dix Denney dei Weirdos, una delle band che rese Los Angeles un punto segnato sulla mappa del punk americano, provenivano da North Hollywood, a un passo dalle Hollywood Hills. La geografia della Città degli Angeli non ha mai sentito la particolare esigenza di apparire con precisione e realismo agli occhi del mondo. Gli studi televisivi e cinematografici hanno spesso abusato del sole e del clima eccezionalmente costante per far sembrare il centro città a poca distanza dalla spiaggia, poco più del tempo necessario a un rocambolesco inseguimento in auto, comprese un paio di opportune fermate per delle buone inquadrature a Hollywood e Beverly Hills lungo il percorso. La realtà, però, è più sfumata e lo è sempre stata: i ragazzi dei Black Flag, per esempio, sono cresciuti più vicini al surf e alla sabbia rispetto ai Beach Boys e, per quanto Frank Zappa nella canzone “Valley Girl” del 1982 sembri descriverci la Valle praticamente come un quartiere nei dintorni di Hollywood raccolto intorno alla Shearman Oaks Galleria come ideale centro culturale, stiamo parlando in realtà di un’area di circa 650 chilometri quadrati, con una popolazione di quasi un milione e ottocentomila abitanti. L’area della Valle da cui provenivano i Bad Religion era più vicina alla Ventura County Line che a Hollywood: aveva tutte le caratteristiche tipiche del sobborgo, con una tipica scuola superiore da sobborgo. La “El Camino Royal High School” aveva un ampio campus all’aperto, una rinomata squadra di football, un abile gruppo di cheerleader e aveva mandato al college un numero più che discreto di studenti, affinché diventassero tipici membri produttivi della Società.


Nel 1979, Greg Graffin iniziò il secondo anno di scuola superiore. Il primo giorno di scuola si presentò con i capelli tinti di nero e una maglietta dei Black Flag. Jay Bentley, capelli rasati di fresco, indossava invece una maglia con la scritta “Virgin”. “Be’, immagino lo siamo davvero” disse riferendosi alla sostanziale non esistenza di punk nella scuola.

Brett Gurewitz e Jay Ziskrout erano al terzo anno e, insieme, avevano già fatto parte di due band. La prima, gli Omega, non uscì mai dal salotto di casa dei genitori di Ziskrout. La seconda ebbe un po’ più di successo: Brett scriveva i pezzi, suonava la chitarra e cantava, Jay suonava la batteria. I Quarks, così si chiamava la band in stile Beatles con tendenze New Wave, ottennero una data, l’unica della sua esistenza, al talent show pomeridiano della scuola.


Il migliore amico di Brett, Tom Clement, conosceva Greg, che si era vantato con lui di essere un ottimo cantante. Tom si era dato “anima e corpo” al punk e insisteva perché anche Brett lo facesse e formasse un gruppo con Greg.

GREG GRAFFIN – Tom era sveglio abbastanza da capire che i suoi due amici avrebbero potuto mettere insieme un’ottima squadra, quindi mi presentò a Brett. Aveva ragione. Eravamo tutti e due sul tipo nerd-intellettuale e, per quanto fossimo ancora molto giovani, fu subito un incontro di menti affini.

Brett, tuttavia, era piuttosto riluttante a tuffarsi nel mondo del punk rock.

BRETT GUREWITZ – Avevo i capelli lunghi come Ric Ocasek, o come Joey Ramone, e mi stavo preparando per entrare nel mondo del punk. Tom, invece, ci era già completamente dentro. Avevo una maglietta fatta in casa con la scritta “Fuck you, I’m a longhair punk! (vaffanculo, sono un punk capellone)”. Però avevo paura di tagliarmi i capelli, all’epoca era un gesto che non si faceva a cuor leggero.


Tom fece quindi le presentazioni, a scuola. Brett conosceva il fratello maggiore di Greg, Grant, mentre lui non l’aveva mai incontrato prima. Da subito, Greg rimase affascinato dall’esperienza del nuovo amico.

GREG GRAFFIN – Dicevo sempre a Tom “vorrei così tanto far parte di una band”, ma sapevo di non avere alcuna possibilità perché non ne sapevo nulla. Come si forma una band? Quindi, quando incontrai Brett, cominciai ad affidarmi a lui perché aveva già tutto l’armamentario. Sapeva tutto il necessario per far funzionare le cose. Insomma, aveva il know-how.

Credit: Ed Colver

Oppure, come diceva Brett dal suo punto di vista, “ora avevo un assistente personale”. Nonostante Greg prendesse in giro continuamente Brett per i capelli lunghi, il loro progetto di fare musica insieme non venne meno e anzi si concretizzò la primavera successiva, dopo un concerto dei Ramones all’Hollywood Palladium a cui andarono insieme.

BRETT GUREWITZ – So che è un po’ un cliché e che i Ramones vengono considerati i Johnny Appleseeds del punk, ma per me è stato proprio così. Prima di loro i miei eroi, tra i musicisti, erano i virtuosi, magari le rock star. Ma quando li ho scoperti ho subito pensato “questo è qualcosa che posso fare ”.


Brett fu così ispirato dallo spettacolo che volle subito fondare una band. Così, di lì a poco, i ragazzi decisero di incontrarsi a casa di Jay Ziskrout per provare. Brett aveva portato una canzone che aveva scritto, intitolata Sensory Overload e Greg ne aveva un’altra, ideata alla spinetta di sua madre e intitolata Politics. Si insegnarono i brani a vicenda e provarono in salotto fino a ottenere un risultato che gli sembrasse buono abbastanza, dopodiché registrarono un nastro con i due brani. Allora non potevano saperlo, ma le prove fatte in quel modo divennero la modalità usata dalla band per fare musica insieme per i successivi quarant’anni. Sia Brett che Greg scrivevano i pezzi e li portavano alle prove. Non riff, melodie abbozzate o parti di brani ancora da strutturare, ma canzoni complete con titolo e testo che però venivano perfezionate e diventavano via via migliori quando la band si riuniva e tutti i musicisti apportavano il loro contributo. Il modo in cui Brett e Greg hanno condiviso i loro brani si è evoluto negli anni con lo sviluppo della tecnologia, ma il metodo è rimasto sempre lo stesso: creano le loro canzoni in maniera indipendente, poi le sottopongono al resto del gruppo per le rifiniture.

BRETT GUREWITZ – Furono le nostre prime vere prove e non avevamo ancora un bassista. Portai una canzone e Greg un’altra. Greg mi insegnò a suonare la sua con la chitarra e io come cantare la mia. Le suonammo e andammo molto bene.

Credit: Ed Colver

Brett era impressionato dal talento e dalla determinazione di Greg e, nonostante fossero tutti soddisfatti di come fossero andate le prove, si chiedevano anche come sarebbe andata con un basso nella band. Non dovettero attendere molto: il lunedì successivo, a scuola, Greg reclutò Jay Bentley, che ricorda una conversazione di questo genere:

GREG: Suonerai nella nostra band. JAY: Okay. Ho una chitarra. GREG: Abbiamo già un chitarrista. Suonerai il basso. JAY: Okay. Non ho un basso. GREG: Qui ci sono alcune canzoni che abbiamo scritto, puoi rimediare un basso?


JAY: Ah, ‘fanculo. Okay.

Sarebbe andata sempre così, la band recluterà i nuovi membri pescandoli dalla cerchia più stretta delle amicizie. Questo dice molto anche su quanto fosse circoscritta la scena punk di L.A. nel 1980: come ebbe a dire Jay, “non c’era nessun altro a cui chiedere. E io ero già là”. Jay supplicò i propri genitori di comprargli un basso e riuscì a convincerli dopo una lunghissima trattativa

JAY BENTLEY – “Taglierò l’erba del prato per tre volte! Porterò fuori la spazzatura per sempre!” Alla fine, li convinsi. Il mio patrigno era decisamente un tipo da Sears, così fu lì che andammo ad acquistarlo. Era un jazz bass a scala corta, un basso da ragazzini. Non ne sapevo un cazzo di niente, ma non me ne importava. Presi il mio jazz bass a scala corta e affittai un amplificatore nel negozio di chitarre dall’altra parte della strada.

Al momento delle prove Jay, alla primissima esperienza, era piuttosto intimidito da Brett e Ziskrout perché erano più grandi e avevano già fatto parte di altre band. “Questi non scherzano un cazzo”, pensava. Inoltre, non conosceva il basso, non sapeva suonarlo, quindi prese a mimare quello che faceva Brett con la chitarra. Capì rapidamente la corrispondenza tra le note e gli accordi barrè e si mise a seguirli.


JAY BENTLEY – Era il momento di darsi da fare. Avevamo solo tre canzoni e le provammo centinaia di volte. Facevo schifo, ma era divertente.

Ciò che mancava in esperienza veniva ampiamente compensato da un debordante entusiasmo. Anche se Jay non sapeva come suonare il suo strumento, a Greg piaceva quello che sentiva.

GREG GRAFFIN – Quando successivamente [Bentley] venne alle prove nel soggiorno [di Ziskrout], andava alla grande con il basso.

Decisero subito di rivedersi per provare di nuovo insieme. Ma, prima di tutto, dovevano trovare il nome giusto per la band.


JAY ZISKROUT – Eravamo seduti nel soggiorno di mia madre a domandarci che nome dare alla band, scartando via via tutti i nomi assurdi che ci venivano in mente. Credo sia stato Brett a chiedere “cosa ne pensate di Bad Religion?”. Tutti lo adorammo: era chiaro che andasse ben oltre il semplice concetto di religione. Significava reagire, opporsi ai dogmi, agli schemi di pensiero imposti. “Questo è quello che devi pensare, questo è quello in cui devi credere”. Il nostro ethos era in totale opposizione a questo attraversare la vita come fossimo pecore.

Il nome piacque anche a Greg, nonostante non avesse mai avuto granché a che fare con la religione organizzata.

GREG GRAFFIN – Non ho avuto alcuna educazione religiosa, a casa mia non era proprio contemplata, mia madre ne era rimasta traumatizzata. La religione non mi ha mai influenzato, non conoscevo nessuna delle storie della Bibbia. Probabilmente avevo una certa inclinazione spirituale, quello sì: quando i miei insegnanti mi fecero conoscere Herman Hesse lo apprezzai molto. Quando toccò a Thoreau, lo amai. Natura e filosofia Buddista mi affascinavano e mi trovai portato in modo spontaneo ad approfondirne la conoscenza. Durante quelle primissime prove non avevamo ancora un nome, ma diventare i Bad Religion ebbe perfettamente senso, per me. Brett sentì subito un’affinità con il suo compagno di scuola più piccolo, Greg.

BRETT GUREWITZ – Trovarci è stata una gran fortuna. I miei genitori mi hanno impartito un’educazione religiosa, più per tradizione e contesto sociale che per fede sincera. Ho avuto il mio bar mitzvah, ma potrei affermare che da piccolo fossi profondamente scettico sulle questioni di religione. Non ero ateo, mi interessava molto la filosofia e anche la spiritualità, ma agnostico e probabilmente panteistico. Molti ragazzi leggono Siddharta alla scuola media senza apprezzarlo. Io invece ero molto interessato a quel genere e anche Greg lo era. Ero affascinato dalla filosofia occidentale e da quella orientale ed ero molto diffidente verso l’educazione religiosa che stavo ricevendo.


Gli sforzi di Brett per dare un ordine a ciò che stava imparando e la sua ricerca di risposte ai grandi interrogativi della vita lo allontanavano dagli altri studenti. La band, a parere di Ziskrout, altro non era che un’estensione di questi interessi.

Credit: Gary Leonard

JAY ZISKROUT – Brett era un filosofo ancora prima che gli altri ragazzini pensassero minimamente a cose simili. Mi consigliava libri da leggere in continuazione.

Il nome Bad Religion forniva loro la cornice perfetta per il tipo di band che aspiravano a essere. Stabiliva un principio organizzativo, chiariva da subito la loro posizione riguardo le varie questioni sociali. Per Greg il nome Bad Religion forniva loro un punto di vista.

GREG GRAFFIN – Eravamo dei giovani arrabbiati, nessun dubbio su questo, e da punk avevamo bisogno di essere contro qualcosa. Avevamo il diritto, in quanto ragazzini bianchi, americani, nel 1980, di essere così arrabbiati? Non lo so, è una cosa che lascio decidere ad altri. Sta di fatto che noi lo fossimo. Non è difficile, quindi, capire a posteriori da dove saltò fuori quel nome. Comunque sia, si rivelò un’ottima idea non solo per l’immagine, ma anche perché ci permise di spaziare tra varie e differenti tematiche.


BRETT GUREWITZ – Se il tuo nome è Wasted Youth (Gioventù Bruciata), è difficile restare coerenti con il messaggio una volta che arrivi a cinquantacinque anni.

Più appariscente del nome era però il logo: una croce barrata. Brett arrivò alle prove nel soggiorno di Jay Ziskrout con un disegno su un pezzo cartone, esclamando “Ce l’ho!” Anche Greg capì immediatamente che avevano tra le mani qualcosa di speciale, il simbolo perfetto per loro. Quando Brett colorò il logo, utilizzò di proposito il rosso, il bianco e il nero, che erano i colori associati alla svastica, il simbolo del partito nazista.

BRETT GUREWITZ – Non era insolito vedere gente indossare la svastica, nella scena punk degli albori. Pensavo che i ragazzini lo facessero per dare un’immagine scioccante, ma a me naturalmente metteva a disagio e non ne avrei mai potuta indossare una. La croce barrata rossa, bianca e nera, quella che poi sarebbe diventata famosa in tutto il mondo come crossbuster, è un simbolo forte, sconvolgente. Da ragazzo ebreo potevo indossarla ed era potente tanto quanto una svastica.

Credit: D.J. Farley

In pratica ci volle un tempo relativamente breve per trovare nome e logo. Molto altro se ne andò in riflessioni e discussioni su come presentare le loro idee e sulla percezione della band che desideravano il pubblico avesse. Le prove continuavano, ma a un’intensità e soprattutto un volume che non permetteva loro di farlo a lungo nello stesso posto. Dal soggiorno dei Ziskrout si spostarono nel garage di Brett, ma i vicini si lamentarono. Provarono a casa di Jay, ma qualcuno chiamò subito la polizia, in pratica al secondo accordo. Alla fine scelsero il garage dei Graffin perché, a detta di Jay, sembrava l’unico posto da cui non li avrebbero cacciati via a calci. Questo soprattutto grazie alla madre di Greg, Marcella, e ai loro pazienti vicini di Canoga Park. Marcella aveva fiducia nei suoi figli e non aveva mai imposto loro troppe regole. “Non vedo perché non li avrei dovuti appoggiare” commentò “erano soltanto dei ragazzi, in pratica diventarono una band nel giro di poche ore e dovetti spostare tutta la mia roba in un angolo del garage per fare loro spazio, ma non feci troppe storie. Preferivo che stessero lì, piuttosto che andarsene chissà dove”. Marcella, nonostante fosse cresciuta in una famiglia religiosa, non era infastidita dal nome della band. “L’ho adorato” dichiarò “davvero. Quando chiedevano ai ragazzi il motivo per cui avessero scelto quel nome, le risposte erano molte e diverse. Il parere di Greg era che qualunque cosa può diventare una bad religion. Quando abbandoni la tua indipendenza e non pensi con la tua testa ecco, quella è cattiva religione. Be’, questo punto di vista non solo potevo capirlo, ma mi piaceva molto. Non ho mai pensato in maniera negativa a quel nome”. Tuttavia, un piccolo problema c’era stato, con Jay Ziskrout, che le aveva lasciato un po’ di amaro in bocca. “Non mi importava se stavano in casa, non ero preoccupata. Di solito non combinavano troppi disastri. Ma uno degli amici di Greg aveva preso un po’ troppa confidenza: non solo prendeva il latte dal frigorifero senza chiedere a nessuno, ma lo beveva direttamente dal cartone!” C’era anche qualche lamentela per il rumore. I ragazzi cercavano di non disturbare i vicini utilizzando le scatole delle uova e la schiuma isolante per attutire il suono, ma con scarsi risultati. “Ero sempre molto colpita da ciò che facevano” ricorda Marcella “e non per il livello di rumore, quello non mi ha mai dato fastidio più di tanto”. Brett battezzò la loro sala prove scrivendo “BENVENUTI ALL’INFERNO” con la bomboletta, sul muro interno del garage.


JAY BENTLEY – Il nome “Inferno” era azzeccato. Non credo però che avesse un significato molto profondo. Eravamo nella fottuta Valle. Nel garage c’erano un milione di gradi, ma non ci importava. Potevamo toglierci le magliette e sudare per ore e ore e ore finché faceva buio.

Continuarono a scrivere canzoni e a sperimentare con il loro sound.

BRETT GUREWITZ – Ormai avevamo iniziato e dovevamo soltanto proseguire. Alle prove successive Greg portò un’altra canzone. E io un’altra ancora. Il resto è storia.

Greg aggiunse World War III e Slaves e Brett scrisse Drastic Actions, che fu il suo tributo a Shut Down dei Germs, e subito dopo l’iconica Bad Religion, che la band considera il proprio inno e che all’epoca rappresentava anche il loro manifesto, perché descriveva i loro principi basilari e spiegava le motivazioni della band. Se osserviamo le parole della prima strofa


“Spiritual era is gone, it ain’t coming back Bad Religion, a copout that is all that’s left”

vediamo che si tratta di una critica diretta non tanto al declino della spiritualità in America, quanto all’ascesa di cosa come l’organizzazione politica Moral Majority e dei televangelisti come Jimmy Swaggart, Jerry Falwell, Jim & Tammy Faye Bakker, che spremevano i credenti per ricevere donazioni.

Ma, se la prima strofa è una condanna del ruolo della religione nella società, la seconda mette le cose su un piano molto più personale:

“Don’t you know the place you live’s a piece of shit Don’t you know blind faith through lies won’t conquer it Don’t you know responsibility is yours I don’t care a thing about eternal fires… Listen this time it’s more than a rhyme It’s your indecision Your indecision is your Bad Religion…”


La fine della strofa che porta al ritornello si rivolge direttamente all’ascoltatore: è una chiamata all’azione, l’invito ad assumersi la responsabilità delle proprie credenze. È la doppia sfida al pensare con la propria testa e al contrastare la cieca fede e i pericoli che questa porta. Il verso “Listen this time it’s more than a rhyme”, postmoderno nella sua consapevolezza di sé, rafforza l’importanza e soprattutto l’urgenza del messaggio: ciò che ci minaccia non sono le fiamme eterne dell’inferno, non sono le menzogne dei falsi profeti, è la nostra pigrizia di pensiero. Più che scagliarsi contro le religioni organizzate, la canzone richiama gli ascoltatori al chiarimento e alla riflessione, a capire bene quello in cui credono. Scoprilo da solo, preme il testo quasi ansioso, “non è troppo tardi”.

Nonostante i Bad Religion stessero muovendo i primi passi come compositori e i suoi membri fossero tutti degli adolescenti, il brano ha un livello di sofisticazione molto raro nelle band hardcore di quell’epoca: musica implacabile nella sua volontà di guidare il pubblico a sentire qualcosa, testo che incoraggiava non soltanto a pensare, ma a farlo criticamente. Via via che la band si faceva più esperta, più smaliziata e conosciuta, l’Inferno si trasformò in un punto di ritrovo per gli amici punk della Valle. A volte i ragazzi arrivavano fin da Hollywood solo per vederli provare e si iniziò a parlare dei Bad Religion nel giro punk. E non era una scusa per organizzare feste e fare casino. I ragazzi passavano dopo la scuola e andavano via prima di cena, quando la madre di Greg tornava dal suo lavoro all’UCLA (Università della California di Los Angeles). Curiosamente, la band non si curò di cercare un luogo in cui esibirsi di fronte a un vero e proprio pubblico. Avevano soltanto sei canzoni e, vista la loro abitudine di registrare le prove in garage, sapevano di avere circa dieci minuti di materiale in tutto.

Credit: Olaf Heine

JAY BENTLEY – Usavamo una boom box, una di quelle grosse radio con un registratore a cassetta. Ci registravamo così. Non era un granché ma ci dava un’idea di quanto a lungo avremmo potuto suonare.

Mettendoci anche gli intermezzi, le chiacchiere, gli scherzi e le buffonate tra una canzone e l’altra, non arrivavano a più di quindici minuti. Non era abbastanza per un live, ma più che a sufficienza per una demo. Andarono allo Studio 9, che si trovava nell’Hollywood & Western Building e aveva visto giorni migliori: le attività al primo piano continuavano a essere operative, ma la gran parte del secondo, terzo e quarto piano era abbandonata. Stanze senza porte. Finestre senza vetri. Pareti ricoperte da graffiti. Per molti squatter punk di Hollywood era semplicemente casa. Nel cuore di quel caos c’era, per l’appunto, lo Studio 9. Uno studio di registrazione con una sala soltanto e un registratore Stereo8 da quattro soldi. Quindici dollari l’ora per registrare qualsiasi cosa, tecnico compreso.


GREG GRAFFIN – C’erano graffiti ovunque. Non solo nello studio o nella sala di registrazione. Ovunque. C’erano tutte queste stanze vuote, abbandonate, con le pareti ricoperte da graffiti. I muri erano decorati dai nomi delle band che erano passate per quel luogo o lo avevano occupato, quindi i Bad Religion decisero di seguire l’esempio e lasciarono la loro firma.

BRETT GUREWITZ – Avevamo con noi delle bombolette di vernice spray e iniziammo a scrivere Bad Religion un po’ ovunque. Una cosa piuttosto stupida. JAY BENTLEY – Andammo in una delle stanze vuote e scrivemmo il nostro nome sulle pareti. Immagino che non sia poi molto furbo imbrattare una parete con la scritta Bad Religion, quando Bad Religion è anche il nome della tua band oltre a quello che risulta nella prenotazione della sala. La sessione non durò a lungo. Registrarono solo un pugno di brani, ma era la prima volta che si confrontavano con qualcosa di vagamente simile a una registrazione professionale e il tutto si rivelò un’esperienza eccitante ed esilarante. Incapace di resistere seduto di fianco al mixer, mentre ascoltavano la registrazione, Brett saltò dalla sedia e con il piede colpì involontariamente il ripiano in vetro del tavolo, mandandolo in mille pezzi.

“Scusi, ripagheremo tutto” disse subito Jay, che era però alle prese con una vera e propria rivelazione.

JAY BENTLEY – Dio se facevo schifo. Avevo mancato note ovunque e non riuscivo a star dietro ai pezzi più veloci. Era la prima volta che mi rendevo conto di quanto fossi scarso. Comunque sia, uscirono di lì con la cassetta della demo. Ma più tardi, quella sera, Brett ricevette una chiamata dal proprietario dello studio.


PROPRIETARIO: Ehi, avete riempito questo posto di graffiti, giusto? BRETT: Sì. PROPRIETARIO: Bene, non so come vi sia venuto in mente, ma non potevate farlo. È vandalismo. Dovete tornare qui e ripulire tutto. BRETT: Davvero? Ma c’erano già graffiti ovunque! PROPRIETARIO: Be’, certo, ma quelli non sappiamo chi li abbia fatti, mentre il vostro nome non c’era prima che arrivaste.

BRETT GUREWITZ – Sono sicuro che non avremmo dovuto farlo. Ma, visto che a quel tempo eravamo solo dei ragazzini stupidi, tornammo a Hollywood e ricoprimmo tutti i nostri graffiti.

L’esperienza motivò la band, che riprese subito a incontrarsi all’Inferno per provare e scrivere nuovi pezzi. Ora che avevano un assaggio di cosa fosse la registrazione erano determinati a realizzare una vera demo. Soltanto, non allo Studio 9! Avrebbero realizzato un EP punk in uno studio di registrazione punk, quello era scontato, ma ora erano interessati a ottenere un buon sound e una incisione di qualità. Non avevano ancora pubblicato il primo album, ma già questa determinazione a fare musica che fosse dura e veloce, ma anche piacevole da ascoltare, li distingueva dai loro colleghi. E così sarebbe stato in futuro: durante tutta la carriera dei Bad Religion, la ricerca della registrazione dal suono perfetto avrà sempre un’importanza in bilico tra l’irrinunciabilità estetica e la vera e propria ossessione. Per registrare il loro EP da sei canzoni trovarono, grazie all’insegnante di batteria di Ziskrout, un piccolo studio realizzato nel garage di casa del produttore, a Thousand Oaks.

BRETT GUREWITZ – Fu un’esperienza sconcertante. Non avevamo la minima idea di quello che stavamo facendo, non sapevamo come fare un disco. Avevamo soltanto delle canzoni e volevamo registrarle. Le altre band punk incidevano i quarantacinque giri. Sapevamo che era possibile farlo, ma a noi non era mai venuto in mente di riuscire a mettere insieme trenta minuti di musica che valesse la pena di registrare, o di provare a suonare dal vivo, davanti a un pubblico. Jay stava ancora imparando come usare il basso. E soprattutto come non usarlo.


JAY BENTLEY – Il mio piccolo jazz bass da tre quarti era uno sprazzo di sole nel buio. Nero, arancione e giallo. Decisi che lo volevo tutto nero, perché il nero era più cool dello sprazzo di sole. Andai in garage e trovai soltanto una lattina di nero opaco: lo spruzzai sulla parte posteriore del basso e sembrava gomma. Cazzo se era cool! Quindi lo spruzzai sul davanti, sulla tastiera, sulle corde e sulla palette. Non avevo idea del casino che stavo combinando!

GREG GRAFFIN: Lo fece proprio prima che andassimo allo studio di registrazione. È per questo che ottenemmo il nostro sound unico sul primo EP.

Per realizzare il master portarono la loro registrazione ai Gold Star Studios di Hollywood, uno tra i più rappresentativi studi di registrazione indipendenti tra Santa Monica e Vine. Un grande passo in avanti rispetto allo Studio 9. Phil Spector aveva imparato l’arte della registrazione proprio al Gold Star e utilizzò la sua acustica unica per realizzare il suo leggendario Wall of Sound. End of the Century dei Ramones, lanciata all’inizio di quell’anno, fu registrata proprio da Spector al Gold Star. Quando arrivarono allo studio con la loro registrazione furono accolti da Johnette Napolitano, alla reception. Johnette fu di grandissimo aiuto e incoraggiamento e li riempì di consigli utili. Aveva i capelli viola e una passione per il punk e anche questo fu sicuramente d’aiuto.

Credit: Steve Albanese

Dopo aver ascoltato la registrazione, Johnette divenne se possibile ancora più disponibile. “Sapete” disse “quando voi ragazzi realizzerete il vostro primo LP non accontentatevi del primo tecnico del suono messo a disposizione dello studio di registrazione. Dovreste farvi produrre dal mio ragazzo”. Il ragazzo in questione, oltre che compagno di band, era Jim Mankey. Insieme a suo fratello Earle era uno dei membri fondatori degli Sparks. Johnette e Jim suonavano insieme nei Dream 6 e di lì a poco avrebbero formato i Concrete Blonde. L’entusiasmo di Johnette diede una spinta incredibile alla band, ma per Brett trovarsi in uno studio di registrazione professionale fu un’esperienza che, letteralmente, cambiò il suo futuro.


BRETT GUREWITZ – La prima volta che vidi uno studio vero e proprio, capii di essere innamorato, che la mia strada era segnata. Non tutti reagiscono in questo modo, ma vedendo quelle file di luci e pulsanti andai fuori di testa, le amai. È questo ciò che fa per me, devo imparare come realizzarlo!, mi dissi. Non vedevo l’ora di imparare dai musicisti e dai produttori più esperti. Soprattutto quelli che non storcevano il naso di fronte al punk.

Una volta ottenuto il master, il passo successivo era quello di trasformarlo in un vinile vero e proprio. Brett cercò sull’elenco telefonico e trovò un’azienda di pressatura di vinili. Ci volle un prestito di suo padre e soprattutto tempo, era l’autunno del 1980 e il disco sarebbe stato pronto solo agli inizi dell’anno successivo. Dato che stavano per lanciare un disco, avevano bisogno di un nome per la loro etichetta. Greg e Brett scelsero il nome Epitaph, dall’omonima canzone dei King Crimson. Il ritornello, “Confusion will be our epitaph”, sembrava suggerire che il nome dell’etichetta indicasse brutalmente che non sapevano cosa stessero facendo. In realtà, come band avevano percorso molta strada in pochissimo tempo. Avevano scritto canzoni, registrato un EP e realizzato una demo. Soprattutto, avevano fatto tutto da soli, creandosi ogni singola opportunità con la loro determinazione. L’unica cosa che i Bad Religion non avevano ancora fatto, escludendo le prove all’Inferno, era suonare davanti a un pubblico.

Era giunto il momento.

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