Neil Young, are you ready for the country? La storia del capolavoro “Harvest”
Cinquant’anni fa irrompeva sul mercato l’album più conosciuto e venduto del cantautore canadese. Più che logico che fosse ricordato con una ristampa estesa, per fortuna non inutilmente esagerata. E splendida
Considerando anche la folle quantità di dischi pubblicati da Neil Young in quasi cinquantacinque anni di una carriera da solista che oltretutto l’ha visto spaziare tra più stili, è difficile che alla domanda “qual è il suo miglior album?” si riceva una sola risposta: quelli belli-belli sono molti e la scelta può essere problematica.
Se invece chiedessimo quale sia il più famoso, quello che di norma reputato il classico dell’artista canadese, chiunque direbbe: “Harvest!”. Ovvero il quarto capitolo della serie, immesso sul mercato dalla Reprise il 1° febbraio del 1972 e n.1 nelle classifiche di Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Francia, Australia, Olanda e Norvegia (e, per la cronaca, n.12 in Italia).
Una pietra miliare
Vari milioni le copie vendute di un 33 giri che vanta pure una copertina spartana ma di rara eleganza, che l’autore – già sensibile alle questioni ambientali – avrebbe tanto voluto biodegradabile. A causa dei costi elevati e del rischio di danneggiamenti fortuiti non se ne fece nulla, ma l’artwork è comunque rimasto scolpito nella memoria collettiva alla pari di Heart of Gold (il singolo apripista, n.1 in USA e Canada e n.10 in UK).
Se si doveva celebrare con una super-ristampa un unico titolo del Loner, non poteva insomma essere che questo. Infatti la Warner non ha snobbato l’appuntamento: dal 2 dicembre è disponibile una ricca “deluxe” in due LP, un 7″ e due DVD, oppure tre CD e 2 DVD, più libro illustrato e poster. Gli extra sono tre brevi outtake peraltro già note (Bad Fog of Loneliness, Journey Through the Past, Dance Dance Dance), una notevole esibizione in solitaria (audio e video) tenutasi alla BBC nel febbraio del 1971 e il film-documentario Harvest Time: due ore di riprese dell’epoca negli studi e nel fienile di quel Broken Arrow Ranch che l’allora 26enne Young aveva da poco acquistato per circa 350mila dollari, con qualche dialogo “rubato” e nessuna aggiunta a posteriori. Un trionfo dell’autenticità e una testimonianza straordinaria.
La svolta country di Neil Young
Rispetto al precedente After the Gold Rush, uscito un anno e mezzo prima, Harvest è di sicuro più accattivante nella sua struttura sostanzialmente country. Questa era figlia di una sorta di folgorazione avvenuta a Nashville, Tennessee. Lì Young si trovava nel febbraio del 1971 per apparire come ospite al Johnny Cash Show. Elliot Mazer aveva aperto i Quadrafonic Sound Studios e voleva convincerlo a registrare lì, cosa che fu piuttosto facile perché il musicista non vedeva l’ora di incidere alcune delle tante canzoni che aveva scritto negli ultimi tempi. Così in poche ore organizzarono una session con strumentisti locali e a quella prima seduta ne seguirono altre, a Nashville e altrove, fino al termine dell’estate.
Dai mesi di appassionato impegno scaturì una scaletta concisa, dieci episodi per trentasette minuti totali. Molti, però i gioielli. Per limitarsi agli esempi più eclatanti, la corposa eppure languida Heart of Gold, l’intensa e solenne A Man Needs a Maid con gli interventi della London Symphony Orchestra curati da Jack Nitzsche, il turgido blues Alabama, la dolce Old Man e la drammatica The Needle and the Damage Done colta live nel gennaio 1971, con testi ispiratissimi nei quali si affrontano temi quali amore, morte, giovinezza perduta e razzismo.
Il disagio del successo
Il mood generale è pacato, con il rock quasi sempre sullo sfondo. Ma l’album brilla per qualità di songwriting ed eclettismo, senza cadute di tono. Se Out on the Weekend e la title track suonano carezzevoli e Are You Ready for the Country? decisamente vivace, There’s a World e Words (Between the Lines of Age) sono ben più elaborate e austere. L’assenza dei Crazy Horse è compensata dall’ottimo lavoro svolto da Ben Keith alla pedal steel guitar, Tim Drummond al basso e Kenny Buttrey alla batteria, con i contributi del già menzionato Nitzsche (piano e lap steel guitar) e i cori degli amici-stelle Crosby, Stills & Nash, James Taylor e Linda Ronstadt.
Per quanto strano possa sembrare, il consenso della critica non fu plebiscitario, ma Neil Young non se ne curò affatto. A destabilizzarlo fu invece l’enorme successo commerciale, con relative incertezze su come gestirlo.
Basti pensare che nel 1972 l’attività dal vivo fu ridottissima e frammentaria. Non soltanto per la morte per overdose del chitarrista dei Crazy Horse Danny Whitten. Young temeva infatti di trovarsi imprigionato nel ruolo del cantautore se vogliamo ammiccante di Heart of Gold. Da lì in avanti la sua carriera – benché qualche tentativo di concepire un secondo Harvest non sia mancato… – sarebbe stata un continuo rifiuto delle mosse in teoria più scontate. Con esiti non sempre scintillanti e infinite stranezze in grado di confondere ogni fan. La gestione eccentrica degli immensi archivi è in tal senso eloquentissima.
Fa piacere che l’approccio “confusionario” abbia risparmiato questa ricca ristampa, del tutto lineare nel raccontare il percorso che ha condotto a Harvest e a rivelarne tante stuzzicanti e interessanti sfaccettature.