“McCartney III” è un viaggio lo-fi nel laboratorio creativo di Paul
A 50 anni dall’uscita di McCartney I, il 18 dicembre arriva il terzo capitolo della serie di album solisti interamente suonati e prodotti dal grande ex Beatles. L’abbiamo ascoltato in anteprima: ecco quello che sentirete
Da buon inglese, Sir Paul McCartney ama la regolarità. Cinquant’anni fa diede inizio ai suoi personali Seventies con l’uscita di McCartney, il primo album solista, pubblicato con mirabile tempismo una settimana dopo la sua dipartita ufficiale dai Beatles nella primavera del 1970. Un progetto che manteneva deliberatamente un basso profilo: registrazioni casalinghe, tutti gli strumenti suonati da Paul stesso, totale libertà espressiva. Dieci anni dopo, nel 1980, al tramonto della straordinaria stagione artistica con gli Wings, fu il momento di McCartney II, che replicava la ricetta dell’esordio solista adattandola agli umori musicali degli incipienti Eighties. Siccome non c’è due senza tre, per segnare l’inizio della nuova decade, il 18 dicembre esce per Universal Music l’ideale terzo capitolo della serie cominciata 50 anni fa: McCartney III.
Ovviamente non è il terzo album solista di Paul (da McCartney II a oggi ce ne sono stati moltissimi, l’ultimo dei quali, Egypt Station, usciva appena due anni fa) e neanche il primo dal 1980 in cui lui suona tutti gli strumenti o quasi. Tuttavia la volontà di metterlo in diretto collegamento con quei due lontani precedenti, tramite il recupero del titolo “in serie”, ci pare particolarmente adeguata se si considerano i contenuti musicali e il generale spirito che anima il progetto.
Lo spirito lo-fi di McCartney III
McCartney III, infatti, è sostanzialmente una raccolta di schizzi musicali, idee semilavorate, bozze sottoprodotte. Per questi motivi, i beatleasiani duri e puri potrebbero rimanere delusi: non è un album grandioso. Ma si traggono queste conclusioni solo se non si conoscono i primi due capitoli. Il fascino di questa trilogia sta altrove. Non nella perfezione compositiva di quello che è forse il più geniale songwriter di tutti i tempi, ma nel senso di esplorazione e assoluta libertà creativa del grandissimo musicista che si diverte a rompere i suoi stessi schemi.
C’è qualcosa di profondamente umano nel sentire un Paul McCartney in versione home-made e do-it-yourself. L’artigianalità delle produzioni trasmette un’esperienza d’ascolto completamente diversa da quella dei suoi grandi capolavori con i Beatles o con gli Wings: sembra di essere seduti lì davanti a lui, in studio, mentre registra una bozza in presa diretta. Si ha anche l’impressione di essere ammessi nel “laboratorio creativo” della mente di uno dei più grandi geni della pop music, lì dove nascono le idee musicali prima di essere raffinate e trasformate in canzoni senza tempo.
Questo è senz’altro un punto di valore del progetto. Ed è vero che in McCartney III Paul suona tutti gli strumenti e produce tutto da sé, ma non si tratta di quel tipo di “polistrumentismo” impeccabile alla Stevie Wonder o alla Prince, per intenderci. Nelle undici tracce che compongono il disco sentiamo una voce non sempre intonatissima, fraseggi di chitarra “sporchi”, parti di batteria elementari. I brani, insomma, lasciano traspirare tutto il calore dell’imperfezione lo-fi, da diamante grezzo, di un progetto che è assimilabile più ai dischi di Daniel Johnston e ai primi progetti solisti di John Frusciante che non alla passata grandeur beatlesiana.
I brani dell’album
I pezzi, dunque. I brani sono spesso destrutturati e basati sulla ripetizione ad libitum di singole idee musicali. Soprattutto nel caso di Deep Down e dell’iniziale Long Tailed Winter Bird, con il suo caldo suono da sala prove e il robusto groove che parte da metà brano. Oppure poggiano comunque su un generale senso di circolarità armonica che ignora i canoni della forma canzone: è il caso di Find My Way, Pretty Boys, Lavatory Lil.
Ci sono anche brani che in qualche modo si avvicinano maggiormente a tali canoni. Per esempio Women and Wives, Slidin’ (un rock potente, con tanto di basso distorto), The Kiss of Venus (solo voce e chitarra acustica, forse la più maccartiana come melodia e armonia, anche se con quel falsetto lascivo sembra che voglia prendere in giro se stesso), Seize the Day e When Winter Comes. All’estremo opposto sta invece la lunghissima Deep Deep Feeling, con i suoi oltre otto minuti di sovraincisioni e manipolazioni sonore.
McCartney III è comunque un lavoro con le sue specificità, rispetto al precedente capitolo del 1980. Lì possiamo ascoltare diversi brani con una produzione molto in linea con i tempi e persino radio-friendly (su tutti, Coming Up e Waterfalls). Non si può dire lo stesso di questa terza parte della serie, che con la sua provocatoria bizzarria, in fin dei conti, ci consegna l’animo ribelle di un artista eternamente giovane.