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“Rid Of Me” di PJ Harvey compie 30 anni: cinque curiosità sul disco che ha lanciato la sua futura carriera solista

Il 4 maggio 1993 usciva il secondo album di PJ Harvey, un disco viscerale e abrasivo che segnava un incredibile distacco dalla musica inglese dell’epoca

Autore Billboard IT
  • Il4 Maggio 2023
“Rid Of Me” di PJ Harvey compie 30 anni: cinque curiosità sul disco che ha lanciato la sua futura carriera solista

PJ Harvey sul set del docu-film di Seamus Murphy, A Dog Called Money

Pubblicato il 4 maggio 1993 Rid of Me è il secondo album uscito a nome PJ Harvey. Quando ancora la sigla indicava non solo la titolare – Polly Jean Harvey – ma un vero e proprio power trio composto dalla medesima più l’ex batterista degli Automatic Dlamini Rob Ellis e il bassista Steve Vaughan. Arrivato in sostituzione di Ian Olliver, presente sull’album d’esordio, Dry, del 1992.

Dopo un primo tour estivo a supporto dell’album, la band si scioglierà per dissidi interni e PJ Harvey andrà avanti per conto suo, affermandosi come una delle cantautrici più apprezzate della terra d’Albione. L’unica artista ad aver vinto per ben due volte il prestigioso Mercury Prize, ovvero l’equivalente inglese dei Grammy. Proprio questo sarà il disco che le varrà la sua prima candidatura al premio, ma non la vittoria finale. Forse perché ancora troppo poco “catchy” rispetto alla concorrenza. Rid of Me era un disco dal suono molto più viscerale, crudo, sporco, violento e abrasivo. Un disco garage punk-blues pieno di spigoli che poco o nulla aveva a che fare con la musica inglese del periodo.


Prodotto dal guru del punk duro e puro Steve Albini, l’album mescola diverse influenze. Dal grunge più rumoroso di Seattle (vedi alla voce Mudhoney) al blues d’avanguardia di Captain Beefheart and His Magic Band. Ecco allora cinque curiosità sul disco che ha lanciato la futura carriera solista di PJ Harvey.

1. La famosa intervista di PJ Harvey al Tonight Show

Una volta rimasta senza band di supporto PJ Harvey si ritrova a promuovere l’album da sola. Così, a settembre si presenta al pubblico americano del Tonight Show di Jay Leno vestita con un insolito abito dorato scintillante. Piuttosto lontano dalla sua tenuta d’ordinanza degli esordi e anche dai suoi principi se si pensa a un brano come Dress.


Sul palco si esibisce in una versione solista di Rid Of Me. Con tanto di cori in falsetto, interpretati personalmente col ghigno beffardo di una che la sa lunga, mentre in precedenza erano affidati alla voce di Rob Ellis, sia dal vivo che sull’album.

Ma la cosa che rimarrà veramente impressa nella memoria collettiva del pubblico americano sarà la breve intervista successiva in cui PJ finirà per parlare della sua vita di campagna nel contea inglese del Dorset. Leno le chiede di approfondire alcuni dettagli del suo “lavoro” nella fattoria di famiglia. Cosicché la giovane PJ Harvey si trova costretta a spiegare la pratica dell’ ”inanellamento degli agnelli”. Cioè un’attività che consiste sostanzialmente nello stringergli i testicoli con un elastico. «Dopo circa due settimane cadono» chiosa serenamente la Harvey, lasciando il pubblico per metà divertito e per metà interdetto davanti alla sua sfrontatezza. Sarà questa sua uscita a valerle l’epiteto di Castrating Bitch-Queen da parte dei suoi detrattori.

Se non l’avete mai visto potete recuperare tutto qui.

2. Da Steve Albini a Kurt Cobain

Dopo essersi ritirata a scrivere i brani in una casa sul mare della sua contea natale, per le registrazioni dell’album, PJ Harvey volle lavorare a tutti i costi con Steve Albini. Perché aveva letteralmente adorato il suono che aveva tirato fuori dalle chitarre dei Pixies su Surfer Rosa. Fedele alla sua politica diretta e senza fronzoli capace di scoperchiare le viscere e catturare l’urgenza espressiva («Se per fare un disco ci vuole più di una settimana, vuol dire che qualcosa è andato a puttane») Albini ha registrato il disco in pochissimo tempo presso i suoi Pachyderm Studios di Cannon Falls, nel Minnesota. Gli stessi in cui pochi mesi più tardi registrerà anche un altro album caratterizzato dalla stessa urgenza. In Utero dei Nirvana.


Il lavoro di PJ Harvey, di cui Kurt Cobain si era dichiarato grande fan, ha avuto una forte influenza sull’ultimo album dei Nirvana. Albini ha dichiarato che nelle discussioni che portarono alla registrazione di In Utero, presentò Rid of Me come esempio di un approccio più crudo alla registrazione della chitarra e Cobain ne rimase affascinato. L’affinità è stata confermata anche da Dave Grohl che nel 2014 ha dichiarato «Kurt amava PJ Harvey. Abbiamo sempre immaginato di suonare con lei la nostra canzone Milk It da In Utero. È una canzone contorta, quasi come qualcosa che avrebbe potuto essere nel suo disco Rid of Me».

3. La questione del femminismo

Pur nascoste dietro una buona dose di ironia e sarcasmo, non è difficile scorgere nei testi di Rid Of Me alcune delle battaglie e dei principali temi di discussione portati all’attenzione pubblica dalle varie correnti del movimento femminista.

Tuttavia, a differenza di Kurt Cobain, PJ Harvey non si è mai dichiarata apertamente femminista. Anzi ha sempre rifiutato quell’etichetta con frasi tipo: «Per la metà del tempo non mi considero nemmeno una donna». O ancora «Quando scrivo canzoni non scrivo mai pensando al genere. Scrivo delle relazioni tra le persone». Due esempi lampanti di questo discorso sono rappresentati dai due singoli –50ft Queenie e Man-Size – che si collocano agli estremi opposti dello spettro del genere.

Il primo, ispirato dall’horror b-movie Attack of the 50 Foot Woman, racconta di una donna gigante alta 50 piedi che si bulla come farebbe il peggior maschio alfa della specie. (“Ehi, sono una grande regina, nessuno può fermarmi, Niente può toccarmi”). Harvey ha dichiarato di aver voluto riprodurre la spavalderia machista del gangsta rap, prendendo esplicitamente in giro quelli che fanno a gara a chi ce l’ha più lungo (“Misurami!”). «Mi piacevano molto le vanterie […] “Volevo scrivere qualcosa su un personaggio davvero spavaldo».


II secondo, invece, è un brano in cui PJ Harvey si immagina come sarebbe abitare un corpo maschile (man-size appunto). Tra i vantaggi non avrebbe più bisogno di urlare per farsi sentire e ascoltare (“non c’è bisogno di gridare / Riesci a sentirmi, riesci a sentirmi ora?”). Ma dall’altro lato dovrebbe far attenzione alla propria parte più sensibile, categorizzata come femminile e quindi come un segno di debolezza da estirpare (Get girl out of my head). Deve immergere i capelli nella benzina (ed è forse questo quello che osserviamo sull’immagine di copertina) e dargli fuoco per liberarsene (Douse hair with gasoline / Set it light and set it free).

4. I riferimenti sessuali nei testi di PJ Harvey

PJ Harvey è stata una delle principali sdoganatrici del linguaggio sessualmente esplicito delle donne all’interno delle canzoni. Diventando un punto di riferimento per numerose altre artiste che sono venute subito dopo come Liz Phair e Alanis Morrisette, o Karen O degli Yeah Yeah Yeahs.

Nei brani di Rid Of Me i riferimenti sessuali si sprecano. Per esempio nell’incipit urlato di Snake si allude a un serpente che striscia tra le sue gambe (You snake / You crawled / Between / My legs).

Le gambe diventano una vera e propria ossessione del disco sia quando parla delle proprie, Lick my legs I’m on fire / Lick my legs of desire – Leccami le gambe, sono eccitata, leccami le gambe del desiderio – canta nella title track. Sia quando vorrebbe tagliarle al proprio partner per non farlo andare via, come succede appunto in Legs  (no other way, cut off your legs / non ho altra scelta, devo tagliarti le gambe).


Tuttavia è il brano “avanzato” dalle registrazioni dell’omonimo disco precedente – Dry – a dipingere l’immagine mentale di natura sessuale più vivida e irriverente. Me lo sbatti in faccia, lo succhio per bene, ma mi lasci asciutta. You leave me dry, urla ripetutamente nel ritornello PJ Harvey, alludendo allo stato di non eccitazione della “sua” mucosa vaginale. O, più in generale, alla mancanza totale di stimoli forniti dal “partner”.

5. La copertina, i video e l’immagine pubblica

Lo scatto della foto di copertina è stato eseguito dalla fotografa e amica intima di PJ Harvey, Maria Mochnacz. Che all’epoca era la fidanzata di John Parish, mentore, collaboratore di lunga data e anima gemella musicale di Harvey, per sua stessa ammissione. 

Maria Mocharz in seguito sarebbe diventata la principale fotografa e graphic designer di quasi tutte le copertine dei suoi album successivi. Nonché la regista dei video musicali girati per i due singoli estratti dall’album Man-Size e 50 ft Queenie. Nel primo abbiamo ancora una PJ Harvey in bianco e nero che canta in mutande trasmettendo una certa dose di sensualità oscura. Nel secondo invece assistiamo alla prima vera e propria trasformazione di stile della nostra che seguirà le orme di Bowie in quanto massima espressione della “camaleonticità” in musica. Con l’aiuto di Mocharz, PJ Harvey inizia così a creare il suo primo personaggio da palcoscenico. Cappotto leopardato, vestito rosso sotto, occhiali da sole e capelli raccolti all’indietro.

A proposito di questo trasformismo il batterista Rob Ellis aveva dichiarato. «Ha iniziato a indossare boa di piume e occhiali da sole sul palco. Era un meccanismo di sopravvivenza per lei, un modo per proteggere il suo io personale da ciò che accadeva intorno a lei». È stato il suo modo di prendere le distanze per chiarire che i suoi testi non erano da intendersi come autobiografici. Ma come opere di finzione letteraria. «Dovrei avere 40 anni ed essere molto stanca per aver vissuto tutto ciò di cui scrivo», aveva dichiarato all’epoca. Quando di anni ne aveva solo 24.


Oggi che sia lei che il disco ne hanno trenta in più, possiamo dire in conclusione che si tratta di un’opera che ha dato una scossa alla musica rock mainstream degli anni ’90. Nel tentativo impossibile di riportarla alle origini più crude e alternative del periodo pre-Nevermind. Quando la musica più underground aveva ancora la volontà di spiazzare l’ascoltatore. Come ha dichiarato la stessa PJ Harvey, «A quel tempo, volevo scrivere canzoni che scioccassero. Quando frequentavo l’università di arte, tutto ciò che volevo fare era scioccare con le mie opere d’arte. Quando ho scritto Rid of Me, ho scioccato me stessa. Ho pensato: “Beh, se io sono scioccata, anche gli altri potrebbero esserlo”». A trent’anni di distanza possiamo confermare che è ancora così.

Articolo Andrea Pazienza

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