Rock

Sting compie 70 anni: cinque capolavori del bassista più sexy del mondo

Gordon Sumner era un insegnante della provincia inglese un po’ severo e davvero di bell’aspetto, ma quello non sarebbe stato il suo destino finale. La sua passione per la musica, il suo basso e l’esplosione del movimento punk lo avrebbero portato altrove, verso il meraviglioso mondo delle rockstar

Autore Tommaso Toma
  • Il2 Ottobre 2021
Sting compie 70 anni: cinque capolavori del bassista più sexy del mondo

Foto di Eric Ryan Anderson

Forse Gordon Sumner, insegnante severo e di bell’aspetto della provincia inglese, non si sarebbe mai aspettato di diventare il frontman di una band di fama mondiale come i Police. E invece la sua passione per la musica e l’esplosione del movimento punk, lo hanno catapultato nel meraviglioso mondo delle rockstar, dove oggi, giorno del suo 70esimo compleanno, è ancora una delle stelle più luminose.

Non va di certo dimenticato il grande amore di Sting per l’Italia. Un affetto ricambiato fin dall’inizio, dai primissimi concerti con i Police. Un legame che, inoltre, è sancito dall’amicizia con Zucchero e Pavarotti, dal nome di uno dei suoi quattro figli, Giacomo, e soprattutto dalla tenuta Il Palagio, di cui è proprietario in Toscana, dove produce vino e olio. Tanti auguri, Sting!


1978, arrivano i Police!

Iniziò tutto con So Lonely, il primo successo datato 1978 con il suo gruppo, i Police. Una carriera incredibile, quella di Sting. Assieme a Stewart Copeland e Andy Summers realizzò una fusione atomica dei ritmi in levare del reggae con il rock e il melodismo innato delle loro canzoni conquistò l’intero mondo. I tre album pubblicati tra il ’78 e l’80 (Outlandos d’Amour, Reggatta De Blanc, Zenyatta Mondatta) rimangono iconici per chi li ha amati dagli inizi.

Ma facciamo un piccolo passo indietro, allo straordinario Outlandos d’Amour che fu pubblicato in Inghilterra nell’ottobre del 1978 e negli USA nel febbraio del ’79. È ancor oggi considerato uno dei debut album più incisivi di tutti i tempi, sebbene all’epoca della sua uscita non abbia in realtà ottenuto consensi straordinari di pubblico. Entrò in classifica in UK solo all’epoca della sua riedizione, nell’aprile del 1979, e in America giunse fino al 23° posto.


Dopo l’acerbo primissimo singolo Fall Out, inciso ancora senza Andy Summers in formazione, la band aveva dimostrato con i singoli Roxanne e Can’t Stand Losing You una maturazione esponenziale, confermata appieno da questo disco bellissimo ed entusiasmante, da cui fu tratto anche il terzo singolo: So Lonely, perfetto e personale amalgama di influssi Seventies, reggae e funk, con un’urgenza espressiva ancora punk rock. Il videoclip fu girato tra le stazioni della metropolitana di Tokyo e alcuni footage a Hong Kong.

Ghost in the Machine, l’album capolavoro (ma sottovalutato) del terzetto

Molti considerano questa composizione uno dei brani più belli ma meno considerati nella storia del terzetto anglosassone, e hanno ragione. Invisible Sun fa parte del quarto album della band, uscì nell’ottobre del 1981. Zenyatta Mondatta era da considerarsi senza dubbio un successo commerciale. Dal punto di vista stilistico non portava nulla di nuovo nell’evoluzione artistica dei Police che invece arrivò con Ghost in the Machine, maniacalmente curato negli arrangiamenti e nei suoni, che aggiunge alla già ricca miscela di influenze della band la novità di marcate e raffinatissime influenze jazz.

Curiosità: molta parte dell’album fu registrata negli AIR Studios di Sir George Martin nell’isola caraibica di Montserrat. Un luogo paradisiaco e perfetto per isolarsi dai paparazzi e dallo stress della vita a Londra o New York. Qui circolarono alcune delle più grandi star del pop rock (dai Rolling Stones ai Duran Duran, persino i Pooh ci andarono) della seconda metà degli anni ’70 e i primi anni degli ’80.

Durò poco, perché quando arrivò nel 1989 l’uragano Hugo, oltre a distruggere mezza isola, provocò danni incalcolabili agli AIR Studios che chiusero per sempre. Ora la storia di questi studi è raccontata meravigliosamente da un recentissimo documentario: Under the Volcano.


Quando Sting voleva stupire tutti

Mentre si sta spengendo la sua carriera con i Police, Sting diventa uno dei personaggi più richiesti al mondo: dalle interviste per i grandi magazine agli inviti per un qualsiasi evento mondano di un certo rilievo dell’epoca. Che fosse una serata di beneficenza o per appoggiare battaglie sociali, se non c’era Sting l’evento non era cool. La sua telegenia oramai era all’apice e il passo inevitabile e atteso da tantissimi fu quello di intraprendere una carriera da solista.

Per molti fu una notevole sorpresa l’ascolto del suo fortunatissimo primo album da solista, The Dream of the Blue Turtle (A&M, 1985), perché se il singolo che ne anticipò l’uscita (If You Love Somebody, dalle liriche vagamente filosofico-umanitarie) risentiva dell’ultimo “rigurgito” di progressione melodica alla Police, le altre canzoni del disco erano un netto passo in avanti verso un eclettismo sonoro che Sting non aveva mai esperito con la band.

Evidente è l’amore per il jazz. Tant’è che la band che affianca Sting nei suoni dell’album ha come protagonisti il batterista Omar Hakim (che arriva dai Weather Report), il bassista Darryl Jones (che ha suonato con Miles Davis) e poi il sassofonista Branford Marsalis e il pianista Kenny Kirkland.

A differenza di Joni Mitchell, che aveva letteralmente “jazzificato” il suo sound dal 1975 fino ai primi anni ‘80, Sting chiede ai suoi session men sì di inserire il loro DNA musicale ma anche di spaziare, di divertirsi con i ritmi afro-anglo-caraibici (Love Is the Seventh Wave) o con il blues (Consider Me Gone). Sting addirittura si cimenta con un Lied da camera in Russians, gioiellino che prende in prestito un celebre spartito di Prokofiev.


Il riff epico

Alla fine di una piacevole intervista con Sting – era una strana giornata uggiosa di maggio 2019 – gli chiesi di autografare un po’ di vinili suoi e dei Police (ricordo lo sguardo attonito dell’addetta ufficio stampa quando tirai fuori ben sette album dalla mia tote bag… che sfacciato che sono). Con grande gioia Sting li autografò tutti, con cura, ma davanti alla copertina di The Soul Cages del 1991 si fermò e mi disse: “Ecco, questo è un disco di cui vado molto orgoglioso, penso di aver fatto un grande lavoro qui”.

Sono contento che la pensi così perché, nonostante questo disco sia un po’ passato nel dimenticatoio, è un lavoro di grande spessore. Abbandonata per un attimo la politica, e forze influenzato da una produzione omaggio a Kurt Weill a cui Sting partecipò, dà vita a un album meno teatrale dei precedenti. Giunse al primo posto della classifica inglese e al secondo di quella americana.

Offre un’atmosfera introspettiva e malinconica, di sapore intimista. Il disco ha un trittico di lunghi poemi allegorici (Island of Souls, The Wild Wild Sea e When the Angel Falls) e due hit strepitose come l’intensa e teatrale Mad About You e All This Time con quel riff epico. Quest’ultimo condusse Sting dritto al numero 1 della Hot 100 di Billboard e ci fa tornare un po’ indietro ai temi dei Police.

L’inno pop indimenticabile

Chiudiamo questa carrellata ritornando ai Police, con una canzone che ancora oggi il nostro canta con passione e gioia. Avremmo potuto scegliere nel mazzo brani popolarissimi come Desert Rose, We’ll Be Together, Fortress Around Your Heart o, perché no, la fortunatissima All for Love cantata con i “moschettieri” Bryan Adams e Rod Stewart.


Ma nessuna è indimenticabile come Every Breath You Take, che uscì il 20 maggio 1983 come suggello finale della carriera con i Police. Canzone che in molti pensano sia d’amore. In realtà lo stesso bassista ha sempre insistito che il brano tratti dell’ossessione per un’amante perduta e della gelosia che ne consegue. «Una coppia una volta mi disse: “Oh, adoriamo quella canzone, era la canzone principale suonata al nostro matrimonio!”. Ho pensato: “Bene, buona fortuna…”». Anche questa fu registrata agli AIR Studios di Monserrat, mentre il mix finale avvenne in Canada.

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