“Wall of Eyes” degli Smile suona come un film di Paul Thomas Anderson
Il secondo album del trio composto da Thom Yorke, Johnny Greenwood e Tom Skinner è la conferma che The Smile è tutt’altro che un side-project
Esistono legami in apparenza invisibili che diventano evidenti nel momento in cui si genera una connessione. Che sia sonoro o visivo, il filo che unisce Thom Yorke e Johnny Greenwood a Paul Thomas Anderson è ben visibile. Non è forse un piano sequenza sonoro l’insieme di accordi di chitarra acustica che costruisce la title track con cui si apre il secondo album dei The Smile Wall of Eyes? Non sono forse dei leitmotiv i ritmi sincopati di Tom Skinner, allo stesso modo delle sezioni orchestrali alienate e alienanti che ricordano il profilo di molti dei personaggi dei film di PTA? Il trio inglese trasla, sotto forma di musica, lo stile del regista statunitense. E non perché Greenwood spesso componga per lui le colonne sonore. Anzi, a tratti emergono i monumentali Radiohead di In Rainbows e A Moon Shaped Pool, con qualche incursione rock di Hail to the Thief.
Il termine di paragone, come era avvenuto per A Light for Attracting Attention, è sempre la band madre. Quei Radiohead che i fan aspettano dal 2016. Proprio da lì sembra ripartire il nuovo lavoro discografico dei The Smile. Il videoclip e il primo singolo con cui si apre l’album, Wall of Eyes, rappresentano il manifesto di un disco nato in parte in tour, davanti molti occhi. Gli stessi che scrutano le nostre vite dagli smartphone. Un lavoro figlio di nuove suggestioni e antiche cifre stilistiche.
Si parte dall’implosione della melodia, spesso appena percettibile, smembrata in favore dell’armonia. Nel finale di Wall of Eyes emergono il suono dell’orchestra, dei fiati e il canto di Thom Yorke diventa sempre più solido e convinto. Le sensazioni suscitate sono discordanti, le stesse che si provano nel guardare Punch-Drunk Love. Commedia e dramma dal gusto agrodolce, abbinati però a un sentimento di speranza. Fin dai colori più accessi e convinti dell’artwork di Wall of Eyes, realizzato da Stanley Donwood, si percepisce un’inedita aura positiva rispetto al predecessore.
Il singolo Friend of a Friend, accompagnato da un altro stupendo videoclip di Paul Thomas Anderson, è forse l’emblema di questa nuova spinta. Una ballad spettrale scritta durante la pandemia – nel territorio di Pyramid Song – sostenuta dal basso e illuminata dal pianoforte e dagli archi. La melodia è deducibile ed enfatizzata dai cambi di ritmo della batteria. Il ruolo di Tom Skinner in questo secondo album, sebbene possa apparire secondario a un primo ascolto, è in realtà più decisivo rispetto al passato. È lui a tessere i legami e a intrecciare i fili.
Ancora cinema
The Smile hanno registrato Wall of Eyes nei “sacri” Abbey Road Studios di Londra, guidati dal produttore Sam Petts-Davies (Marika Hackman). Il momentaneo (forse) abbandono del sodale Nigel Godrich ha influenzato il risultato finale. Davies aveva collaborato con Thom Yorke alla produzione della colonna sonora di Suspiria di Luca Guadagnino e Wall of Eyes, se non l’aveste ancora capito, è un album cinematografico. L’aspetto più evidente, al di là della presenza-assenza di Paul Thomas Anderson, è l’utilizzo costante dell’orchestra, nello specifico la London Contemporary Orchestra.
La mano e l’estro sono quelle di Johnny Greenwood che, rispetto al primo disco, lascia molto più spazio alla sua anima di compositore. Il pezzo più Greenwoodiano è I Quit, uno di quelli totalmente inediti, mai anticipato dal vivo, che non avrebbe sfigurato nella colonna sonora di The Master. I fantasmi nominati nel testo prendono il controllo della traccia e diventano quasi tangibili negli accordi improvvisi di harmonium. Tuttavia, sono gli archi a trasportare l’ascoltatore in un altro mondo, in un viaggio indefinito e distorto. Sarà interessante capire come la band sceglierà di portarlo sul palco, considerando la premura dei componenti nel voler suonare ogni cosa dal vivo.
Se si parla di cinema, o meglio di schermi, c’è però una traccia che fa realmente parte di una soundtrack e si tratta di Teleharmonic. I fan più attenti sapranno chela strumentale è stata utilizzata in una delle scene più belle della stagione finale di Peaky Blinders. La versione definitiva rimane sullo stesso livello ed è uno dei gioielli del disco. Il falsetto di Thom Yorke, l’intensità dell’harmonium che sale e sembra stimolare il basso: il tutto sorretto dalle percussioni matematiche di Skinner. Qui l’armonia predomina ancora, ma la linea melodica emerge ascolto dopo ascolto.
The Smile, Wall of Eyes è un labirinto con le indicazioni per l’uscita
A Light for Attracting Attention, complice alcuni pezzi come The Opposite o You’ll Never Work on Television Again, aveva fatto urlare al ritorno al rock di The Bends e Hail to the Thief. Salvo poi rivelarsi un album molto più variegato. Allo stesso modo, il fatto di aver registrato Wall of Eyes nello studio dei Beatles, aveva fatto sorgere il sospetto che gli Smile si fossero avvicinati alla musica di Lennon e soci. Ipotesi smentita dai primi singoli e poi dalla band stessa. Anzi, parola di Johnny Greenwood, i tre hanno fatto di tutto per non farsi influenzare in alcun modo dal luogo che li ospitava.
Wall of Eyes, in particolare nella sezione centrale, si trasforma in un album chitarristico, ma non c’è alcuna liberazione melodica. I ripetitivi arpeggi di chitarra disegnano un labirinto sincopato durante Read The Room, per poi sciogliersi nella seconda parte di canzone. Il brano è stato scritto durante il tour europeo dell’estate del 2022, così come il successivo Under Our Pillows. Qui l’elettrica è ancora più asfissiante, a metà strada tra math rock e progressive. Anche qui ci troviamo difronte a una canzone divisa in due sezioni. A partire dal terzo minuto in poi subentra in modo prepotente il basso, prima della coda elettronica. Meno palesi i ritmi afro beat di The Smoke, ma il movimento c’è: è nevrotico, solo apparentemente confusionario, con una coerenza interna. Come un romanzo di Thomas Pynchon, come Vizio di forma.
Tom Skinner sale in cattedra e fa un incredibile lavoro di raccordo mentre Thom Yorke canta la spaccatura interiore di chi vorrebbe concedersi al mondo e agli altri, ma si sente sopraffatto da un continuo oversharing senz’anima. «Nowadays everyone’s for sharing (That doesn’t have a heartbeat)».
Bending Hectic
Bending Hectic merita un paragrafo tutto per sé. Come definirla? Una suite, un viaggio nel viaggio, una strada immersa nel verde e circondata dalle Alpi italiane che i tornanti ti permettono di osservare da varie angolature. Otto minuti on the road nei panni di un personaggio alla guida di un’auto, rassegnato al peggio. Ha frenato troppo tardi e ora, dopo l’atmosfera e le note eteree di chitarra, gli archi violenti sottolineano il momento di massima tensione.
La perdita del controllo avviene in una canzone dove ogni elemento ha una funzione ben precisa e ogni dettaglio è al posto giusto. Ma l’auto ormai ha superato il ciglio della strada e la distorsione esplode in una coda noise rock. Il protagonista, nonostante stia per precipitare, vuole riprendere in mano la situazione e, con un ultimo sforzo, tenta di riafferrare il volante sottraendosi alla tentazione di consegnarsi a morte certa. Bending Hectic racchiude tutto quello che gli Smile sono e possono essere. L’insieme dei possibili esiti della connessione creativa di due menti affini come Thom Yorke e Johnny Greenwood. Perché di connessioni sempre si tratta.
Non chiamatelo side-project
Wall of Eyes si chiude con il piano e la nebbia mattutina di You Know Me!: un brano d’amore dal finale sarcastico, in cui Thom inserisce il dettaglio autobiografico del pugile. Gli Smile hanno superato se stessi con un disco più omogeneo e centrato rispetto al precedente. Il motivo probabilmente risiede nel tempo. Il primo album mostrava dei limiti in alcuni tracce, troppo debitrici al mondo Radiohead nel quale erano nate, soprattutto nei momenti in cui erano accostate al nuovo che stava nascendo.
Quest’opera invece, nonostante sia nata a fasi alterne, è figlia di un percorso collettivo. Il tour non solo ha ispirato i tre, ma li ha amalgamati ancor di più. Le suggestioni del passato sono secondarie, non c’è dubbio che siano tutti brani nati e scritti dagli Smile in quanto tali. Ciò che lega il trio con i Radiohead è un filo nascosto e, come i due amanti del film di Paul Thomas Anderson, le due entità si avvelenano, si alimentano e si prendono cura l’una dell’altra. Per i fan che attendono speranzosi, da oggi la reunion potrebbe apparire più lontana, eppure possono dirsi appagati e sollevati. Non è forse vero che l’attesa del piacere è essa stessa il piacere?