Yungblud, esce per San Valentino “11 Minutes” con Halsey e Travis Barker
In occasione di San Valentino il giovane rocker inglese Yungblud pubblica un pezzo molto importante: “11 Minutes” featuring Halsey e Travis Barker dei Blink-182. La nostra intervista
Avevamo già incontrato questo energico ragazzo del nord dell’Inghilterra l’anno scorso. All’epoca Yungblud aveva fuori appena un EP e una manciata di video su YouTube ma si era già conquistato un vasto pubblico, soprattutto giovanissimo. Da allora il giovane rocker ha pubblicato il suo album d’esordio, 21st Century Liability, e ha portato la sua musica “meticcia” sui palchi di tanti festival europei. Non si ferma l’espansione della sua fan base: l’abbiamo incontrato il giorno del live al Dude Club di Milano ma è già confermato per il 2 novembre il suo concerto al Fabrique. Oggi, il giorno di San Valentino, esce un pezzo molto importante per Dominic: 11 Minutes. Al suo fianco, una delle voci più fresche del nuovo pop internazionale, Halsey, e una leggenda del rock degli ultimi 25 anni, Travis Barker dei Blink-182. Obiettivo: riavvicinare la cultura giovanile al rock and roll.
Il 14 febbraio esce il tuo nuovo singolo, 11 Minutes, con la collaborazione di Halsey e di Travis Barker dei Blink-182. Ce lo racconti?
Volevamo unire le forze per fare uno statement che riportasse il rock and roll sulla scena musicale. Perché il rock è stato così isolato per molto tempo che vogliamo rinvigorirlo. L’hip hop in questo momento domina le classifiche. È tempo per un ritorno del rock and roll. Voglio scrivere una canzone che sia la tragedia perfetta, una versione moderna di Romeo e Giulietta. In questo mondo siamo tutti così distratti e così concentrati su ciò che succederà il prossimo istante che finiamo per perderci quello che succede qui e ora. Non viviamo mai nel presente: viviamo nella prossima settimana, viviamo stasera quando metteremo il prossimo post su Instagram. È rappresentativo del fatto che non riusciamo ad apprezzare ciò che abbiamo.
Il brano racconta la storia di due persone che si erano aggiudicate la fama di “migliore coppia” del liceo. Ma si lasciano perché credono di doversi conformare all’ideologia del mondo moderno che per esempio vuole che si metta la carriera davanti a tutto. Così si separano per tre anni ma poi lui le scrive che non può vivere senza di lei. Si mettono d’accordo per incontrarsi e lei gli dice: “Sono a undici minuti da te”. Ma lei prende la macchina e muore in un incidente.
Ah, wow…
Sì, volevo creare una tragedia che fosse rappresentativa del mondo moderno. È stato bellissimo lavorare con Travis Barker e Halsey. Lei è un’artista fenomenale. Viene da un background rock and roll, così come me e soprattutto Travis. Così ci siamo detti di fare un pezzo che desse un’altra chance al rock and roll. Abbiamo fatto tutto in studio insieme. Penso che quella “magia” davvero si senta nel pezzo.
Hai trovato molta energia in un musicista potente come Travis?
Sì, tra l’altro ha fatto tutto in un solo take. Gli ho chiesto di farne un altro paio solo per il mio piacere personale… Per tanto tempo ho cercato di costruire una fan base che riportasse il rock and roll nella cultura giovanile. Dal momento che l’hip hop è dominante, è l’ora di avere anche pezzi commerciali basati sul rock.
E parlando del tuo precedente singolo, Loner, cosa racconta la canzone?
La canzone vuole rappresentare ciò da cui provengo. Parla del sentirsi soli a prescindere dal numero di persone che ti circonda. Volevo scrivere questa canzone per far capire alla gente che sì, siamo soli, ma se siamo soli insieme allora saremo meno isolati. Siamo una comunità di solitari. E questo rappresenta la mia fan base. Sono due anni che suono il pezzo dal vivo. Ogni sera in cui la suono c’è qualcosa di molto speciale ed energico, così ho voluto catturare ciò in una registrazione.
Trovo che il ritornello del pezzo abbia un gusto anni ’90, un po’ alla Oasis. Pensi anche tu?
Assolutamente, era proprio la mia intenzione, perché vengo da quel mondo. Come Yungblud prendo le influenze di ciò che è venuto prima e lo faccio nuovo. Quel sound rappresenta cose molto importanti per me.
Il tuo album d’esordio, 21st Century Liability, è stato pubblicato a maggio scorso. Che tipo di riscontri hai ricevuto finora?
Ottimi. Volevo pubblicare l’album per fare una precisa dichiarazione su chi io fossi come artista e perché la gente mi scoprisse per conto suo. Non volevo essere un altro musicista dell’industria. Volevo fare le cose a modo mio, entrare in contatto con i ragazzi. Non parlo di Ferrari, di yacht e cose del genere. Lascio quel tipo di cazzate ai rapper. Io voglio creare un legame autentico con le persone.
Pensi che i rapper non lo facciano più?
Penso che alcuni lo facciano: J. Cole, Kendrick Lamar… Ma per la maggior parte si tratta di stronzate materialistiche. I veri rapper parlano di chi sono, quelli finti parlano di ciò che hanno. Io che ho il microfono non sto parlando con te: stiamo parlando tutti insieme, in una conversazione.
Fra le tracce dell’album mi piace molto Kill Somebody. Ci puoi dire qualcosa di più su ciò che l’ha ispirata?
Parla di una zona molto cupa che ho trovato nella mia testa. È quella sensazione di quando ti guardi allo specchio e ti vengono istinti suicidi. Ero in un momento della mia vita in cui non mi sentivo adatto. Ho sempre combattuto contro i miei problemi di ansia. Magari a volte c’è un sole splendente fuori ma nel tuo stomaco c’è un nodo e non sai perché. E questa è la parte più difficile dell’ansia perché non sai dare una spiegazione né a te né agli altri. Così ho pensato di scrivere qualcosa che raccontasse cosa succedeva nella mia testa. È una canzone molto importante per me perché è dura sentirsi smarrito, pensando di non avere nessuno.
Così pensi che facendo una canzone come quella sei in grado di stabilire un legame con il tuo pubblico, o con le persone che provano le stesse cose.
Sì, è esattamente ciò che voglio. Perché mi fa capire che non sono un alieno, non sono irrilevante, che altre persone si sentono allo stesso modo. Volevo che le persone ascoltassero quel pezzo nella cameretta e pensassero: “Come cazzo fa a conoscermi senza avermi mai incontrato?”. Perché era quello che pensavo io ascoltando Eminem, Lady Gaga, Marilyn Manson, gli Arctic Monkeys, gli Oasis. È il modo in cui io mi sono innamorato della musica. Era il linguaggio che potevo parlare senza pronunciarlo.
Questa sera suoni a Milano per la prima volta come headliner. È evidente che ami la dimensione live. Che tipo di elettricità trovi sul palco?
È che dal vivo tutto trova il suo posto. I miei concerti sono come un raggio di luce che mi punta in faccia. Quando salgo sul palco diventa un laser sottilissimo. E mi colpisce dritto al cuore. Così mi sento me stesso, completamente. L’energia è pazzesca e la adoro. Non ha paragoni con nulla che abbia provato in tutta la mia vita prima. È come il sesso, come l’euforia, come quando per due ore devi pisciare e finalmente ti liberi. Ma non dura un minuto o il tempo di un orgasmo, bensì un’ora e mezza e per tutto il resto della sera. Non importa quanto mi senta di merda o stanco o in ansia: quando sento la batteria, la musica, le urla del pubblico, dico “Ok, andiamo”.
Nella nostra ultima conversazione – ma anche in questa – hai usato molto la parola “rappresentare”, in un senso quasi politico. Perché pensi che sia importante che la musica rappresenti qualcosa?
Perché è ciò che dovremmo fare in quanto artisti. Penso che sia importante perché se così non fosse, non sarebbe arte, solo rumore di fondo che dura quelle tre settimane prima di uscire dalle classifiche. La prima volta che ho sentito Don’t Look Back in Anger ne ero rapito così come l’ultima volta che l’ho ascoltata. Perché rappresenta un’emozione che è più di una melodia. È un movimento, un modo di vivere, una spina nel cuore. Supera la prova del tempo perché significa qualcosa.
In un’intervista hai detto che apprezzi molto Drake, che è piuttosto diverso da te artisticamente. Cosa ti piace in particolare del suo approccio alla musica?
È uno che sfida i limiti. Io vorrei essere il Drake del rock and roll. Voglio che le persone non siano mai del tutto sicure di cosa farò come prossima mossa.
L’anno scorso hai fatto un pezzo per la colonna sonora di 13 Reasons Why insieme a Charlotte Lawrence. È anche piuttosto diverso dal tuo stile abituale. Ti piace quel tipo di lavoro per le colonne sonore? E sei tu stesso un consumatore di serie TV?
È stata una cosa molto importante per me. Quella serie è un po’ controversa perché alcuni dicono che renda “glamour” l’ansia. Ma non sono d’accordo perché consente alle persone di capire cosa sia. È scoraggiante che qualcuno pensi che ciò che stai attraversando non sia reale. Questo è ciò che dovrebbe fare l’arte. Amo quella serie, così come Black Mirror e Bandersnatch.
La tua musica affonda le radici in una dimensione rock ma poi la mescoli con tanti mondi diversi: pop, hip hop, elementi di elettronica, persino reggae. Qual è oggi il valore dei generi musicali?
I generi, intesi come rimanere in determinati limiti, sono in larga parte estinti. Nessuno vuole essere messo in una scatola. Perché quando è così diventi parte del sistema, e quindi un semplice numero. La qualità non sono i numeri, ma le persone. Io sono rock perché tengo una chitarra in mano ma non voglio essere incasellato.
Spesso ti riferisci a condizioni psichiatriche, sia nei tuoi testi che in video e copertine. È una cosa personale o pensi che la tua generazione sia una generazione “psichiatrica”?
Penso che la mia generazione sia molto consapevole di ciò che sta succedendo in questo periodo. Le generazioni che ci hanno preceduto ci hanno insegnato a tenerci i pensieri per noi. “Stai zitto e andrà tutto bene”. “Ma io vorrei essere una ragazza” – “Non dirlo”. “Io vorrei abortire” – “Non puoi”. Ma adesso siamo molto più consapevoli perché è ciò che siamo, ed è una cosa entusiasmante. Di questo parla la mia musica: accetta quello che sei, a prescindere da tutto.