Thundercat, bass hero e splendido outsider: «La gente mi riconosce per strada, a volte mi chiedo se sono fatto»
Anche grazie alle sue azzeccatissime collaborazioni, da Flying Lotus a Kendrick Lamar, il bassista ha riportato il linguaggio jazz/fusion nei gusti di un pubblico ampio e giovane. L’abbiamo incontrato a Milano
Nonostante le zanzare e il caldo feroce, la prima cosa che colpisce raggiungendo il Circolo Magnolia la sera del 3 luglio è la quantità di pubblico: l’area outdoor della venue alle porte di Milano è colma, per giunta l’età media è piuttosto bassa. Non proprio ciò che ci si aspetterebbe da un concerto essenzialmente jazz/fusion, con brani dalle armonie complesse, lunghe improvvisazioni e un livello tecnico dei musicisti più usuale in un club come il Blue Note che in quello in cui si svolge il Mi Ami.
Ma il piccolo miracolo fatto da Thundercat è proprio questo: aver riportato in auge (con un tocco moderno e personalissimo) quel tipo di linguaggio musicale presso un pubblico che non necessariamente si nutre dei classici di un Chick Corea o di un Mike Stern. Merito, senza dubbio, delle sue tante fortunate collaborazioni, da Flying Lotus al “deus ex machina” Kendrick Lamar.
Virtuoso del basso elettrico e songwriter dalla godibilissima vena ironica, Stephen Bruner è oggi uno dei più brillanti musicisti in circolazione, sicuramente destinato ad essere ricordato fra i grandi innovatori del suo strumento. Ci ha accolto nel suo tour bus poche ore prima del live milanese.
Ecco un estratto dell’intervista a Thundercat che trovate integralmente sul numero di luglio/agosto di Billboard Italia.
Finalmente recuperi il tour per il tuo ultimo album It Is What It Is. I concerti oggi ti fanno un effetto diverso dal pre-pandemia?
Sì, è fantastico vedere il pubblico diventare sempre più grande. Non sapevo bene cosa aspettarmi, ero solo contento di fare concerti. È stato divertente andare in tour con i Red Hot Chili Peppers, con date negli stadi ogni sera: pazzesco. Certo, già con i Suicidal Tendencies avevo suonato davanti a grandi folle, ma questo è diverso. Adesso quando passeggio per strada molta più gente mi riconosce, anche i miei amici l’hanno notato. Ogni tanto mi chiedo se sono fatto.
Hai suonato su Mr. Morale & The Big Steppers di Kendrick Lamar. Come interagite artisticamente quando si tratta delle sue produzioni?
Kendrick è molto diretto. Fa capire chiaramente ciò che vuole fare. Quando ti coinvolge nelle discussioni sul processo creativo è sempre molto aperto. Gli piace sentire le tue idee, ricevere il tuo input. Anche Sounwave è così (storico produttore di Lamar, ndr). C’è questa bellissima energia fra noi ogni volta che ci mettiamo a suonare. Cerco di dare il mio contributo il più possibile.
Un’altra collaborazione recente è quella con i Gorillaz, per Cracker Island. Ricordi quali furono le tue impressioni la prima volta che ascoltasti la loro musica, ormai vent’anni fa?
La prima volta che li sentii ero in Germania. Da poco facevo parte dei No Curfew (boy band che ebbe un discreto successo in quel paese, ndr). Ero un ragazzino. Sai, era prima del grande avvento di internet e dell’interconnessione che c’è oggi, per cui venire qui in Europa e ascoltare quella musica mi fece sentire nel posto giusto al momento giusto. Perché sulle radio americane non avevo mai sentito niente del genere prima di allora. Era un’estetica davvero interessante per la musica rap. Da piccolo – ma ancora adesso – amavo i videogame e i fumetti, per cui li trovai subito fighissimi. Trovavo fantastico il video di Clint Eastwood.
So che sei coinvolto nell’atteso nuovo album di Herbie Hancock. C’è qualcosa che ci puoi anticipare?
No, sarò pronto quando lui sarà pronto per pubblicarlo…
Quando e come avete iniziato a suonare insieme?
Difficile a dirsi, perché i ricordi si accavallano… Per un breve periodo ho suonato nel suo gruppo, all’epoca in cui il suo bassista James Genus era tornato nella band del Saturday Night Live. Così facemmo alcuni concerti insieme, registrammo qualcosa e facemmo delle jam. Questo accadeva intorno all’epoca delle registrazioni per You’re Dead! (album di Flying Lotus del 2014, ndr) e di The Beyond / Where the Giants Roam (EP di Thundercat del 2015; Hancock suonò in una traccia, ndr). Mi ricordo che stavo seduto ai suoi piedi mentre suonava e che in quel momento non volevo essere in nessun altro posto al mondo.
Come dicevi, di recente hai aperto concerti del tour dei Red Hot Chili Peppers. Immagino che siano stati un’altra grande influenza per te, visto che sei cresciuto nella Los Angeles degli anni ’90…
Sì, hai detto tutte le parole chiave in una frase. Io sono della generazione Beavis & Butthead, ero un teenager un po’ incazzato e un po’ sfigato. E i Red Hot Chili Peppers erano la colonna sonora della mia vita. Chi non ha vissuto quel periodo difficilmente capisce la portata di MTV fra anni ’80 e ’90. Oggi è un’accozzaglia di pop e commediole, ma allora era tutta incentrata su rock e rap alternativi.
Conobbi Flea in un modo molto divertente. Mio fratello maggiore (Ronald Ray, ndr), che è un batterista jazz fenomenale, frequentava la casa di Stephen Perkins (batterista dei Jane’s Addiction, ndr). Nostra mamma lo incoraggiò a portare anche me ogni tanto. Aveva stanze piene di batterie, chitarre e bassi. Un giorno stavo giocando a qualche videogame quando Steve mi chiese: “Ti va di dare un’occhiata ai bassi?”. E ce n’era uno di Flea! Mi misi a suonare Portrait of Tracy di Jaco Pastorius e lui chiamò Flea per fargli sentire. Dissi: “Salve, signor Flea”… Lui se lo ricorda ancora adesso!
Qualche domanda basata sulle tue passioni extra-musicali. Qual è il migliore cattivo di Dragon Ball?
Majin Bu.
Il Pokémon più figo?
Squirtle.
Il gioco Nintendo definitivo?
The Karate Kid.
La tua battuta preferita da Il grande Lebowski?
“Qualche strike, qualche palla persa”.