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Adriano Formoso, artista e psicoterapeuta: «Con le mie canzoni curo i pazienti»

Con la Neuropsicofonia, Adriano Formoso studia gli effetti di determinate stimolazioni acustiche sul cervello e sul corpo umano

Autore Giovanni Ferrari
  • Il17 Giugno 2020
Adriano Formoso, artista e psicoterapeuta: «Con le mie canzoni curo i pazienti»

Adriano Formoso

La sua biografia riesce a unire campi apparentemente (molto) distanti tra loro. Ma la storia di Adriano Formoso – cantautore, psicoterapeuta, psicoanalista di gruppo e naturopata-omoepata – dimostra, invece, che è tutto decisamente collegato.

Adriano Formoso è infatti riuscito nell’intento di unire tutte le sue passioni, capendo – con il passare del tempo e con l’accumularsi della sua esperienza – che il mondo della musica ha un legame forte con la psicologia. E con l’attenzione e la cura alla persona. L’artista (che tra le tante cose ha frequentato l’accademia filodrammatica e ha recitato con alcune compagnie teatrali) ha pubblicato due dischi e un libro. Il suo ultimo brano, Non ho mai capito, approfondisce la visione neuropsicofonica del ritmo. E grazie a questa release, Adriano Formoso ha portato avanti delle sperimentazioni su molti giovani.

Durante il lockdown sono stati molti i pensieri che sono passati per la testa di ognuno di noi. E senza dubbio la musica ha svolto un ruolo fondamentale, tra un’infornata di una torta e l’altra. Non solo come “attività collettiva”, che ha avuto la grande capacità di farci sentire meno soli e più vicini l’uno con l’altro (vedi le dirette Instagram degli artisti o le performance di alcuni cantanti in luoghi iconici). Ma pure come esperienza personale. 

Insomma: molti di noi hanno cercato rifugio nella musica. Ne abbiamo parlato con Adriano Formoso

Si è avvicinato al mondo dell’arte fin da piccolo grazie alle sue passioni per la pittura, il teatro, il doppiaggio e il canto. Poi è arrivato lo studio sulla psichiatria e sulle medicine orientali. Come ha unito tutto questo?

Le due cose hanno viaggiato in parallelo. Sin da bambino ho sviluppato un forte interesse per la natura (sono nato in campagna, in una fattoria, e i miei genitori erano contadini): i suoni e la natura per me si fondevano. Quando a sette anni sono stato catapultato a Milano, ho dovuto farmi un’idea di un mondo diverso e ho iniziato a notare una grande passione per l’umanistica. Ho iniziato architettura, contento di poter avere una professione legata all’arte. Poi, però, ho dovuto fare il servizio civile come militare.

Lì ho studiato la legge Basaglia e mi si è aperto un mondo. Così ho portato avanti i miei studi che, però, sono andati a collocarsi in un ventaglio di variabili diverse. Non c’è stato uno studio solo clinico, ma ho voluto approfondire anche la conoscenza della medicina tradizionale cinese, della medicina ayurvedica, per arrivare a un comune denominatore che riguardasse l’uomo e il suo rapporto con l’esistenza.

E così si è specializzato come psicoterapeuta…

Sì, sono diventato delegato di reparto in un ospedale di Milano, essendomi formato nella psicoterapia e nella psicologia perinatale legata all’ostetricia e alla nascita. Nei primi anni 2000 ho iniziato a trattare di ragazze che soffrivano di disturbi molto forti e che non potevano prendere farmaci, essendo in gravidanza. Io ho sempre pensato che la musica creasse delle cenestesie corporee. Ho riflettuto sui suoni che sentivo da bambino (un gesso sulla lavagna, una porta che si apre e che può fare due note): il confine tra rumore e suono può essere sottilissimo. A quel punto è tornata la musica. 

In che modo? 

Più che l’ascolto della musica in generale o più che la musicoterapia, ho provato a capire la correlazione tra la frequenza acustica e il ritmo sull’asse mente-corpo. È la neuropsicofonia. Uno studio che è andato a correlarsi anche ad altri ambiti. Pensi ai disturbi sugli adulti: dalla cervicale alle stipsi o agli attacchi di panico. Ciò che noi immagazziniamo fin dalla prima infanzia nel grembo materno viene poi rielaborato nell’età adulta. Ci sono correlazioni forti. Ho cominciato a comporre dei miei brani che – oltre a essere il più possibile piacevoli – potessero contenere determinate frequenze, in un particolare range di stimolazione acustica.

Il suo rapporto con la musica ha in effetti radici ben precise e anche abbastanza lontane…

Sì, fin dalle scuole medie mi sono sentito un cantautore. Sono stato finalista all’Accademia Musicale di Sanremo nel 1997. Con me c’erano personaggi come Tiziano Ferro (e altri) che hanno fatto carriera. Io non ebbi la fortuna di essere preso da Mara Maionchi e da Alberto Salerno che erano in giuria. Fui preso da Augusto Martelli, celebre direttore di orchestra. Il mio primo disco – uscito nel 1999 per RTI Music – si chiamava Obiezioni di coscienza. Un album che parlava dell’impegno sociale, con il quale contestavamo la guerra e cercavamo di sensibilizzare le persone attraverso la musica e altre forme d’arte.

Poi – dopo alcuni stop imposti – ho avuto una sorta di depressione reattiva e mi sono detto: “Non mollo. Continuo a suonare”. Così mi sono presentato alla Sony, raccontando che avevo investito molto su questo progetto. Ma il mio disco finì in un cassetto per alcuni cambi interni all’azienda. Così mi sono messo l’anima in pace e mi sono buttato nel mondo del lavoro, suonando solo per gli amici.

Però, poi, ha trovato il modo per farla diventare oggetto del suo lavoro.  

Sì, sono stato considerato affidabile in ambito sanitario. Così ho iniziato a dare più spazio alla musica e ho scritto il libro Nascere a tempo di Rock, che parla proprio dell’importanza della neuropsicofonia per l’essere umano, fin dal concepimento. L’ho spedito al Salone di Torino, mi hanno invitato e premiato. Sono stati molto colpiti da questo mio approfondimento della musicoterapia ricettiva. Questo libro mi ha portato tanto. Al punto che mi ha dato il coraggio di scrivere a Marco Stanzani dicendogli: “Ho voglia di suonare”. E sono ritornato a pubblicare nuova musica.

Le sue canzoni sono diventate strumento delle terapie con i suoi pazienti. Mi può spiegare in che modo avviene questo?

Sono brani che non hanno una costrizione ritmica. A volte il cambiamento del tempo, l’espressione, la pausa, anche il silenzio, nell’insieme formano un unico prodotto. Non sono solamente intese come “varie parti del brano”: è l’intero brano che è l’insieme delle parti, il rimedio, la medicina, il farmaco.

Questa sua ultima canzone ha avuto un grande riscontro su molti giovani…

Su YouTube sono rimasto meravigliato perché ho avuto migliaia di visualizzazioni, senza aver fatto chissà quali promozioni. Anzi. Sui social mi arrivano molte richieste di aiuto, soprattutto da donne che faticano a restare incinta. Solitamente scattano una serie di processi (il calo delle nascite è dovuto al fatto che si è meno fertili, ma anche alla – giusta – liberalizzazione della sessualità per cui però si inizia a prendere la pillola da giovanissime) che io ho analizzato insieme a molte coppie. 

Ascolta qui Non ho mai capito di Adriano Formoso

Come i giovani hanno vissuto il lockdown? Sembra che siano sempre più soggetti a stress psicofisico dovuto alla frenesia, alle dipendenze dai social ecc…

C’è stata una forma di sofferenza collettiva. Siamo stati tutti costretti a rivedere i nostri processi di adattamento. Alle persone ansiose non puoi cambiare la vita perché così non possono più avere il controllo su tutto. Una costrizione di questo tipo crea per forza di cose variazioni di produzioni ormonali che portano ad ansie, depressioni e somatizzazioni varie. Per quanto riguarda le conseguenze su un piano più generale e psicosociale, credo che non siano stati i giovani a soffrire di più, anche perché erano già abituati a interfacciarsi con le nuove tecnologie. Sugli anziani, invece, la cosa è stata senza dubbio più problematica. E non solo perché più esposti dal punto di vista della loro vulnerabilità. Hanno lo stesso bisogno di accudimento dei bambini, ma allo stesso tempo non hanno più i genitori. 

Che musica è “giusto” ascoltare nei momenti come quelli che abbiamo passato nelle scorse settimane?

Tanti ragazzi si sono buttati e rifugiati nella trap, nell’hip-hop. Questo è anche un modo per esprimere la propria aggressività che nasce proprio da questa trasformazione di sé, ormonale. Molti ragazzi usano questi generi musicali perché sono potenti. Permettono di dire certe cose in una forma che altrimenti non avrebbero potuto usare. È uno sfogo. Hanno bisogno di litigare ed è comprensibile. 

Quello che abbiamo vissuto durante il lockdown ci ha segnato per sempre oppure torneremo tranquillamente alla vita di prima?

Il mondo occidentale non è libero: ha creato una propria dittatura. L’economia non ha reso più libero il mondo occidentale. I paesi che esprimono il potere economico sicuramente tenderanno a tornare alla vita frenetica di prima ma con un cambiamento nei singoli soggetti. Coloro che hanno scoperto che non si muore (e che, anzi, si vive forse meglio) a una velocità più bassa, si opporranno, faranno fatica a riadattarsi. Questa esperienza ci ha dato l’opportunità di riprogrammare il nostro approccio alla nostra vita. Chi non ha sfruttato questo tempo di riflessione, non vedeva l’ora di rioccupare il cervello uscendo di casa. Milano, poi, se non ha il suo caos è irriconoscibile.

Tutto questo discorso mi sembra molto legato alla forza della creatività. È così?

Assolutamente sì. È attraverso la creatività che noi riusciamo a scoprire chi siamo. Avere l’opportunità di capire cosa esce da noi, avendone il tempo, significa conoscersi meglio. Le persone che non hanno l’opportunità di conoscersi meglio fanno fatica a capire chi sono veramente e cosa vogliono. Loro sanno solo di essere ciò che è chiesto loro di diventare.

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