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E sono 60! Tanti auguri a Bono Vox

Per celebrare Bono, ripercorriamo con quattro storici video quattro ambiti che hanno da sempre affascinato l’estetica e il modo di comporre della rockstar

Autore Tommaso Toma
  • Il10 Maggio 2020
E sono 60! Tanti auguri a Bono Vox

Olivier Hoslet/EPA-EFE/Shutterstock

Oggi, domenica 10 maggio, Bono Vox festeggia il suo 60esimo compleanno.

Abbiamo deciso di spegnere le candeline insieme a lui. In che modo? Ripercorrendo tramite quattro storici video altrettanti ambiti che hanno da sempre affascinato il panorama estetico e il modo di comporre della grande rockstar.

Partendo dalle origini, il movimento post punk, ma con uno sguardo puntato verso l’America, il cinema. Fino ai duetti stellari.

Bono e il post punk

Siamo alle origini. La fascinazione per le sonorità post punk era forte tra i ragazzi della band. Uno dei migliori amici di Bono era Fionan Hanvey ovvero Gavin Friday dei meravigliosi e teatrali Virgin Prunes. Fionan abitava a poche porte da Paul, la leggenda vuole che Derek Rowen (Guggy dei Virgin Prunes) sia stato il responsabile del soprannome The Edge per David Howell Evans. 

Un pomeriggio del 1979, Bono, zuppo di pioggia e intimidito, si presentò con i suoi sodali alla reception degli studi dove i Joy Division stavano lavorando alla iconica Love will Tear Us Apart. Erano lì per chiedere a Martin Hannett se avrebbe avuto il piacere di produrre il loro primo singolo.

Dall’altra parte della reception Hooky, Peter Hook, il bassista dei Joy Division, ridacchiava di questi ragazzini intimoriti e fradici… «Buffa la storia», ricorda Hooky nel libro Unknown Pleasure – Inside Joy Division. «Una decina d’anni dopo noi eravamo in banca rotta per colpa di un locale a Manchester e questi ex pischelli riempivano gli stadi con Joshua Tree».

Ho scelto questa favolosa esibizione per la televisione svedese del 1981, in una sorta di mega birreria, con tutti seduti e composti. Indimenticabile.

Bono e la fascinazione per l’America

Uno dei primi “approcci” all’America nelle liriche da parte della band e di Bono è nella canzone The Refugee del loro terzo album. Fa esplodere nella sua bellezza i riff marziali di The Edge, War“She’s the refugee / Her mama say one day she’s gonna / Live in America”. 

Ma ovviamente è con il loro quinto lavoro in studio, The Joshua Tree, che arriva la grande celebrazione per i grandi spazi degli USA. Alla ricerca del senso mistico di questi territori Bono e la band scelsero quel famoso deserto e contrapposero alla libertà di viaggiare in mezzo a questi spazi, i temi molto cari a Bono che vanno dalla giustizia alla filantropia.

La bellezza unica di quell’albero ritratto nella front cover inevitabilmente si scontra con il suo stato di isolamento che sottende anche la pericolosità per noi di rimanere in quei luoghi. “Bianco e nero” (come quelli magnificamente riprodotti dalle immagini di Anton Corbijn), come il bene e il male che si svelano analizzando questa grande nazione.

Piccola parentesi: vi consiglio un magnifico saggio appena uscito per Einaudi, L’Impero Nascosto di Daniel Immerwahr, con una nuova e interessante visione della storia degli Stati Uniti. Sono sicuro che ci starebbe bene sul comodino della camera da letto del sig. Hewson.

Ma con il loro precedente album (dal mio personalissimo punto di vista il più bello, onirico e con una delle più ispirate produzioni di Eno) The Unforgettable Fire –  titolo legato alla visione delle immagini che testimoniano la devastazione atomica di Hiroshima – prende definitivamente forma questa infinita attrazione per l’America e per i temi sociali. Vedi la partecipazione al Live Aid, la visita nell’Africa affamata…

E come sempre accade ai grandi artisti e alle grandi band, il richiamo evocato dai simboli potenti della storia dà vita a capolavori. Ecco che nasce Pride (in the Name of Love) una delle canzoni più amate dai fan. Una di quelle che, chi ha visto la band dal vivo, ha cantato fino a perdere la voce. Ed è per questo che ho scelto la versione live che è presente nel disco e nel film Rattle and Hum dell’agosto del 1988 in Colorado.

Bono e il nitrato d’argento

Lasciando da parte l’enorme e ispirata teatralità nelle pose di Bono che lo hanno reso iconico sul palco e nei video, l’estremo interesse di Bono di andare oltre il “supporto fonografico” si vede nel momento in cui la band entra definitivamente nel gotha delle super rockstar con The Joshua Tree

E infatti ecco arrivare subito a ruota un “diario filmico”. Rattle And Hum celebra per l’appunto l’immensa popolarità raggiunta dai ragazzi ora diventati anche i nuovi bardi del nobile populismo (da non confondere con l’attuale valore semantico che ha assunto questo termine) che fu di Guthrie e di Dylan.

E seguendo proprio dei generi americanissimi – dal voodoobilly e jump blues di When Love Comes To Town, al soul fiatistico della irrestistibile Angel Of Harlem – Bono riesce a costruire un documentario che oltrepassa il semplice significato musicale. Diventando una interessante narrazione filmica.

Di sicuro l’amicizia e la stima con il regista tedesco Wim Wenders hanno alimentato le velleità cinematografiche di Bono, tanto da vederlo assoluto protagonista nel progetto del film The Million Dollar Hotel, nato proprio da sue idee. Nel film, Bono ha scritto e cantato le canzoni della colonna sonora, ha realizzato la sceneggiatura, prodotto il film e appare inoltre in un piccolo cameo. 

The Million Dollar Hotel onestamente non è tra i migliori del grande cineasta tedesco (vedere recitare e male Milla Jovovich nei panni della minorata Eloise è un atto infelice). Peraltro il film vinse anche un inspiegabile Orso d’Argento alla Berlinale del 2000.

Molto meglio riparare ascoltando la magnifica Until the End of the World, canzone che dà il titolo al bel film diretto nove anni prima proprio dal regista Wim Wenders e che era stata inclusa, in una differente versione, in Achtung Baby.

Bono e i duetti

Una grande passione di Bono Vox è duettare  con i grandi della musica. La cosa interessante è che in questo frangente Bono ha aperto la possibilità a un ampio spettro di cantanti, dalla lirica ai crooner come Sinatra, dall’hip hop al folk celtico.

La lista è lunghissima e va dal 1983 ad oggi. Comprende gente scomparsa dal radar delle cronache come Stuart Adamson dei Big Country a star ancora lucenti nonostante la loro scomparsa come Luciano Pavarotti.

Voi ne avrete sicuramente in testa alcuni che amate riascoltare, per me la top 3 comprende questi: al numero tre When loves Comes To Town, il duetto (anche con la chitarra di The Edge…) con B.B. King, al numero due She’s A Mystery To Me, brano scritto da Bono e The Edge per Roy Orbison, che vede il cantante degli U2 impegnato anche alla chitarra.

Ma incontrastata in vetta ho piazzato The Wanderer con Johnny Cash canzone inserita alla fine del’ottavo album in studio, Zooropa. In questo brano gli U2 riescono a inserire perfettamente la voce scura e da tenore del grande “The man in black” in un tappeto di synth a cavallo tra i Suicide e i Residents. Geniale.

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