Facebook e le licenze musicali per competere con YouTube e Spotify
Facebook ad oggi non prevede nessuna forma di monetizzazione o ripartizione del diritto d’autore. Ma le cose stanno cambiando
Charlotte Campbell non poteva crederci. Dopo mesi e mesi passati a suonare per strada a Londra, dopo essersi conquistata i suoi fan uno a uno, dopo aver coverizzato praticamente tutte le canzoni presenti in radio, ecco che sente arrivare il suo grande momento. Una mail dalla Warner Music, ma non è un contratto discografico, bensì una diffida per violazione del copyright. Nello stesso momento è stata bannata da Facebook, con la promessa che se violerà nuovamente il diritto d’autore cancelleranno per sempre la sua pagina.
Anche se in modo differente dalle sue aspettative, è stato sicuramente il suo più alto momento di popolarità in rete. Tutto questo grazie a un video di 15 secondi caricato su Facebook dove esegue Castle on the Hill di Ed Sheeran. Perché tutto questo accanimento?
In realtà non è un vero e proprio accanimento, ma un ripensamento verso un atteggiamento troppo lascio nei confronti di chi realizza cover. Soprattutto su una piattaforma (Facebook) che non prevede, ad oggi, nessuna forma di monetizzazione o ripartizione del diritto d’autore.
Se io pubblico un brano edito, vado a sfruttare l’opera di ingegno di qualcun altro che deve necessariamente essere ricompensato: lo posso fare su YouTube, dove il sistema prevede il revenue sharing (percentuale sul fatturato pubblicitario del video + 2 euro versati da Siae / Soundreef ogni 10mila visualizzazioni) e ovviamente sui Digital Service Provider (Spotify, Apple Music, Deezer), ma non su Facebook.
Charlotte Campbell, a suo modo, ha fatto da spartiacque perché da quel momento sono iniziati i lavori per assicurare alla creatura di Zuckerberg le necessarie licenze per poter ospitare musica edita senza rischiare sanzioni da parte dell’industria discografica.
Lo spartiacque
Il primo passo è stato quello di istituire a Menlo Park un ufficio apposito chiamato Music Business Development & Partnerships, gestito da Tamara Hrivnak – un passato in Warner e in Google dove ha rivestito un ruolo simile.
Facebook è in cerca di accordi con major e indipendenti al fine di poter legalmente ospitare brani e cover realizzate dai propri utenti. Tuttavia non ha ancora diffuso notizie ufficiali riguardo al tipo di monetizzazione offerta.
Sicuramente sarà un programma simile a quello utilizzato dal competitor YouTube: pubblicità in pre-roll e banner on video, ma dobbiamo sicuramente aspettarci qualche novità o innovazione. Anche perché Zuckerberg ha più volte ammesso di voler puntare sui video non solo dal punto di vista di esperienza utente-utente, ma anche per trasformarli in spazi pubblicitari, come ad esempio le dirette che potrebbero essere interrotte da veri e propri spot.
Ad oggi, l’ufficio Music Business Development & Partnerships ha stretto accordi con le tre major.
Universal a dicembre 2017, Sony a gennaio e per ultima proprio la Warner, dove ammettono di esser fieri per aver stretto una “partnership olistica che coprirà sia la musica sia le edizioni, per poter offrire all’utente un’esperienza social come video e messaggi”. Anche il commento più interessante lo rilascia il responsabile Global Digital Strategy della major. “La squadra di Facebook sta creando un prodotto incredibilmente innovativo”, piccola anticipazione che però fa semplicemente aumentare le aspettative dei social music geek.
Con le major a bordo, Facebook può già iniziare a fare i primi test. Gli manca però ancora una grossa fetta del mercato, quella rappresentata dalle etichette indipendenti. Queste hanno un valore notevole che nel 2017 si è assestato sui 4.8 miliardi di dollari. A questi bisogna aggiungere gli “spiccioli” realizzati dalle autoproduzioni, 472 milioni di dollari. Ma a Menlo Park hanno già in tasca un accordo con la Merlin che rappresenta oltre 20mila label, ossia il 12% del mercato totale.
Poi c’è l’aspetto tecnico.
Come sarà possibile controllare cosa fanno gli oltre 2 miliardi di utenti su Facebook con i brani editi? E come fare a riconoscerli per ricompensare gli aventi diritto?
YouTube, ad esempio, utilizza l’audio fingerprints, un formato super compresso che gli recapitano i distributori digitali. Una volta ricevuto il mini file, un bot scandaglia i video caricati quotidianamente cercando e accoppiando il programma di monetizzazione con gli aventi diritto.
Facebook potrebbe fare altrettanto, entrando così in maniera pesante nel mercato dello streaming video, e – perché no? – anche in quello audio, di fatto andando a ledere le posizioni dominanti di YouTube e Spotify.
Non dimentichiamoci però di Cambridge Analytica e del fatto che Facebook non sia la migliore cassaforte dove posizionare nostri dati. Lo scandalo non ha influito a livello di comportamento. Secondo un sondaggio condotto da Reuters/Ipsos tra il 26 e il 30 aprile, soltanto l’1% degli utenti intervistati ha cancellato il proprio account. Il 4% invece ha smesso di utilizzare il social. Il dato interessante però è il 26% che ha aumentato la propria attività virtuale, accompagnato dal 49% che non ha cambiato le proprie abitudini.
La gestione dei dati
Facebook dovrà però convincere l’industria e i musicisti di essere in grado di saper gestire i loro dati e produrre reportistica. Soprattutto non dovrà utilizzare l’alibi del fair use per non pagare in modo equo i proprietari dell’opera.
Charlotte Campbell potrà quindi utilizzare serenamente Facebook per promuovere la propria carriera musicale, senza la paura di perdere la propria pagina e anni di lavoro. Dovrà attendere che gli sviluppatori della Silicon Valley producano questo strumento nel più rapido tempo possibile, prima che il mercato trovi nuovi comportamenti.