Willie Peyote: «Sarò il Ricky Gervais del Festival di Sanremo»
Abbiamo intervistato Willie Peyote, che con la sua Mai dire mai (la locura) porterà dentro all’Ariston tutto quello che sta succedendo fuori
Tra i brani che non vediamo l’ora di sentire sul palco dell’Ariston, Mai dire mai (La locura) di Willie Peyote occupa un posto speciale. Non solo per la quote esplicita a Boris, una delle migliori serie italiane di sempre. Ma anche perché si proporrà di squarciare il velo che separa l’evento mediatico dal presente del paese, facendolo irrompere ai piedi della scalinata più famosa d’Italia. Un presente contro cui il Festival ha lottato fino all’ultimo, cercando di garantire una parentesi d’intrattenimento che potesse far dimenticare tutto il resto per qualche ora. Purtroppo la platea vuota rimarrà un reminder inamovibile. Molto meglio, in questo senso, ascoltare sotto una nuova veste quello che c’è fuori dall’Ariston. Sarà Willie Peyote ad offrirci una nitida istantanea tra voce e orchestra, fra le più apprezzate durante l’ascolto in anteprima per i giornalisti. Di questo ed altro abbiamo parlato con lui durante un lungo scambio telefonico.
L’intervista con Willie Peyote
I bookmakers ti hanno messo nel gruppo dei favoriti.
Davvero? Nonostante abbiano pubblicato il testo? È incredibile… comunque non vado a Sanremo per vincerlo. Mi sembrerebbe assurdo.
Doveva essere il Sanremo della rinascita. Purtroppo il virus aveva altri piani, e il pubblico non ci sarà. Voi artisti, in cuor vostro, sapevate che sarebbe finita così?
Sinceramente no. Si aveva la percezione che a marzo la situazione sarebbe stata diversa. Volevamo che rappresentasse una ripartenza. D’altro canto non sentirò così tanto la mancanza del pubblico in sala. Alla fine quello impellettato seduto in prima fila non sarebbe comunque il mio pubblico. Fatto così è un programma televisivo e basta, devo preoccuparmi dove sono le telecamere. Capisco che per Fiorello e altri sia più difficile approcciarsi ad una situazione del genere… ma se posso dirti la mia mi disturba di più non poter suonare una volta finito Sanremo.
Cosa riserverà il post-Sanremo a Willie Peyote?
Non ho un disco pronto, non vado a Sanremo per presentare un album. L’obiettivo è di riprendere a suonare il prima possibile, qualunque cosa succeda. Anche per non far morire così in fretta Iodegradabile.
Willie Peyote tra Boris e intellettuali
Nella scena di Boris citata in Mai dire mai (la locura), Platinette è la figura che “c’assolve dai nostri peccati”. Chi incarna meglio quel concetto nel 2021?
Secondo me proprio Sanremo! Nel suo complesso rappresenta «il peggior conservatorismo che però si tinge di allegria, di paillettes», per dirla à la Boris. Quando ho proposto il pezzo mi aspettavo mi dicessero “ma che sei scemo? Vieni a Sanremo a prendere per il culo Sanremo?”. E invece con mio grande stupore ad Amadeus è piaciuto tantissimo.
Nel pezzo parli di intellettuali snob. Che ruolo occupa l’intellighenzia nel panorama culturale e musicale odierno?
Non solo esiste l’opinionista da talk show con la libreria dietro, quello snobismo che dice la sua dall’alto della sua torre d’avorio, ma è tutti i giorni su tutti gli schermi di Italia. In questo testo si aspettavano che me la prendessi come al solito con la destra e palle varie… ma io prendo per il culo tutti. Anche la posa da sinistroide col cachemire e il portaocchiali à la Bertinotti. Quell’immagine lì, desueta, di discorsi tra gente che si capisce solo tra di loro.
Ad esempio?
Quando dico “il coatto che parla alla pancia” immaginati Er Faina. Questo da un lato. E dall’altro, toh, Andrea Scanzi. Non pensavo a loro nello specifico, ma questa immagine è la dimostrazione plastica che tutti i giorni siamo circondati da entrambi gli aspetti. Ed entrambi possono avere solo un pubblico di un certo tipo, a seconda della dialettica. Ma quanto è il personaggio che si trova il pubblico? Quanto è il pubblico che influenza il personaggio?
Che risposta ti sei dato?
Quando io ero giovane mi facevo portare dall’artista che seguivo dove voleva lui. E accettavo che mi portasse anche in posti inaspettati. Era lui che comandava. Oggi da parte del pubblico c’è questa visione che “tu sei mio”. Ti posso scrivere in ogni momento su Instagram, ti parlo su Clubhouse. Mi appartieni, e se fai qualcosa che non mi aspetto, mi hai deluso. È una forma di possessività che tradisce il senso dell’arte. Perché dovresti pretendere che faccia quello che vuoi tu? Non dovresti lasciarmi spiegare il perché delle mie scelte?
Cosa manca rispetto al passato?
Una volta c’era il tacito accordo tra chi era sotto il palco e chi sopra. Credo che ci sia stato un capovolgimento, e mi fa un po’ paura. Ci influenziamo troppo a vicenda. Il mio compito è fare la musica, il tuo è ascoltare. Si è persa la divisione dei ruoli.
Leggendo alcuni passaggi del testo mi è tornato in mente Bassi Maestro che ad un certo punto ha preso le distanze da un rap in cui non si riconosceva più. C’è una parte della produzione di Willie Peyote che non ti dice più nulla?
Non del tutto. Ogni tanto mi capita di riascoltarmi cose molto vecchie della mia discografia. Sono molto contento di aver mantenuto un discorso coerente con me stesso. Anche nei cambi che la vita mi ha portato a fare. Ho iniziato a scrivere rap a 18 anni, ora ne ho 36. La mia scrittura è cambiata, ma perché è cambiato il mondo intorno a me. Sono fiero di aver alleggerito certe espressioni, perché si prestavano ad essere strumentalizzate e potevano essere offensive. In ogni caso ho sempre cercato di mantenere una grande verità in quello che facevo. La mia. Non ho mai cercato di fare quello che non ero.
L’impronta lasciata sul rap
Ti senti in un certo senso il padrino del nuovo cantautorato rap che sta spopolando? Artisti come te e Ghemon già proponevano certi elementi…
È vero che siamo stati tra i primi a farlo in un certo modo, questo è innegabile. Non i primi in assoluto, mi ricordo che già Tormento suonava coi musicisti, ma abbiamo anche intercettato dall’estero una certa corrente, tra The Roots e Blitz The Ambassador. Mi piacerebbe essere annoverato in quella categoria. Ma come pioniere, non come padrino. Tra i primi a rischiarmela in un certo modo e a dire alla gente “mischia quello fa parte di te”. Perché quello che viene fuori sarà vero.
Duetterai con Samuele Bersani. Qual è il passaggio di Giudizio Universale a cui sei più legato?
«Troppo cerebrale per capire che si può stare bene senza complicare il pane». Racconta con una delicatezza e una profondità di cui non sono capace la sensazione di essere troppo cervellotici e di andare a complicarsi situazioni semplici. Mi rivedo molto.
«Dì un’altra palla, se riesco palleggio». Qual è la fake news più pericolosa in cui sei incappato lungo la tua carriera?
Non è tanto la fake news in sé. A me spaventa come non siamo più capaci di discernere la realtà dalla finzione. La nostra totale incapacità di analizzare bene un testo per capire la differenza tra ciò che è vero e ciò che non lo è. Come si fa a mettere in dubbio la validità di un vaccino in un momento come questo? Quanto tempo ancora volete rimanere chiusi in casa? Potete spararmi dentro quel cazzo che vi pare, basta che mi fate uscire. Mi spaventa questa cosa che si debba dire di no a tutto, andare contro all’autorità giusto per fare i ribelli.
Alla luce del contenuto, ma soprattutto del contesto in cui lo proporrai, qualcuno potrebbe trovare la partecipazione di Willie Peyote in contrasto con quello che canta. Pensi che valga la pena per un giovane artista cercare di lanciare certi messaggi da un palco come quello di Sanremo?
Secondo me sì. Non è il palco su cui suoni che fa te, ma sei tu che rendi il palco importante o meno per raccontare la tua storia. Sono convintissimo di questo. Mi sento un pesce fuor d’acqua più come approccio, che come storia. Vado a Sanremo per fare il Ricky Gervais dei Golden Globe italiani, per ridere di me e degli altri. Se ti danno un microfono, va sempre bene. È come lo usi, che fa la differenza.
Ben vengano i ragazzi che si prendono la briga di salire su un palco importante come quello dell’Ariston per dire la loro opinione. Bisogna semmai avere le spalle abbastanza larghe per non avere paura. Perché comunque Sanremo te ne mette. Non ci credo che gli altri non si stanno cagando addosso. È forse il programma più importante della storia della televisione italiana. Mi fa effetto tutto, dal suonare con l’orchestra a pensare a mia nonna che l’indomani farà la grandeur al bar. Non c’entra aver le palle, ma avere la forza di difendere le proprie idee davanti a tutta Italia.