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Scott Walker: there is a light that never goes out

Scott Walker: ossia un affascinante (e anticonformista) cantante americano che era però inglesissimo nello stile. Il nostro ricordo

Autore Tommaso Toma
  • Il26 Marzo 2019
Scott Walker: there is a light that never goes out

Stanley Bielecki/ASP/Getty Images

La prima volta che sentii nominare Scott Walker era dalle parole di Brett Anderson degli Suede. Era l’ottobre del 1994. Stava spiegando alla stampa italiana in una round table, quanto fosse importante l’influenza degli Walker nella composizione di Dog Man Star. Il 90% dei giornalisti di allora – già abbastanza agée e ancora oggi alcuni strenuamente attivi – annuivano. Ma con la netta sensazione di non capire veramente di chi stesse parlando Brett.

Scott Walker è stato praticamente un “fantasma” per i giornalisti italiani: non ricordo che nessuno dei presenti in quella round table o nelle pagine anche degli specializzati di allora (Rockerilla, Mucchio Selvaggio o Rockstar) avessero mai dedicato un articolo retrospettiva allo chansonnier dell’Ohio.


L’ultima volta che ho sentito parlare di Scott Walker è invece due estati fa a Copenhagen. La compagna danese del regista Brady Corbet ci raccontava quanto fossero emozionati tutti quelli della produzione nel vedere con quanta concertazione un settantenne si dedicasse a comporre la colonna sonora per il film di uno “sfrontato” e debuttante regista con (il bellissimo) The Childhood Of A Leader. Tant’è che che Brady e Scott ci hanno riprovato a lavorare assieme. Le ultime fatiche di Walker sono state proprio le canzoni scritte per il nuovo film di Corbet, Vox Lux, cantate da Sia (nel film “coperta” dalla presenza di Natalie Portman). Un finale di carriera clamoroso, no? Una ex star riluttante ai riflettori, con quel look perennemente dark che presta la sua musica alla voce di una delle star del pop più “positive” in circolazione…

Ecco, questi due piccolissimi ricordi possono aiutarci a capire chi fosse Scott Walker. Un genio del pop che aveva trovato il successo nella seconda metà degli anni ’60 con i Walker Brothers, ispirando la carriera iniziale di David Bowie, ma che rifuggiva da qualsiasi atteggiamento da star. I suoi elegantissimi  e imperdibili quattro album da solista che vanno dal 1967 ai primi anni ’70 non ebbero mai appeal nel nostro Paese.


Ma gli artisti più sensibili e acuti dei due decenni successivi sarebbero rimasti affascinati da quel cascame orchestrale e melanconico. Soprattutto la meglio gioventù inglese degli anni ’80 con Marc Almond, Julian Cope e Morrissey in prima linea. E soprattutto quella del decennio a venire: Suede, Radiohead, Pulp, Divine Comedy, Saint Etienne… Sono solo i primi nomi che mi vengono in mente.

Per rifuggire da ogni stereotipo Noel Scott Engel (suo nome all’anagrafe), dopo un lungo silenzio e di inattività (praticamente dai primissimi anni ’80 a meta degli anni ’90), si presentò con sonorità avant-garde. Album spesso grevi, sempre segnati da toni scuri e drammatici, difficili all’ascolto ma non per questo meno affascinanti delle sue antiche cover di Jacques Brel. Registrò perfino un album doom metal con i Sunn O))).

Mi piacerebbe che le nuove generazioni di amanti della musica coraggiosa, elegante e ben cantata si avvicinassero a Scott Walker. A differenza di quello che accadde a me, seppur divoratore di musica sin dall’adolescenza.

Ora che si è accesa la stella nel cielo di Scott, provate a seguirla. Ad ammirarla.




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