La ressa a Milano, le bottigliate a Bologna: la prima rocambolesca volta dei Blink-182 in Italia
È appena uscita “Fahrenheit-182”, l’autobiografia del bassista Mark Hoppus, che fra i molti aneddoti racconta anche i ricordi legati alle prime apparizioni della band nel nostro paese

Blink-182
La fuga da un’enorme folla di fan in delirio sfrecciando fra le viuzze del centro di Milano. Le bottigliate prese sul palco a Bologna da parte di un manipolo di metallari. Due istantanee di segno opposto che rendono l’idea del livello di popolarità raggiunto dai Blink-182 fra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei Duemila, con tutto il corollario di situazioni grottesche che ciò comportava. All’apice del loro successo, le prime apparizioni dei Blink-182 in Italia furono tutt’altro che ordinarie, e il bassista Mark Hoppus le ricorda fra il divertimento e lo sbigottimento in Fahrenheit-182. Un memoir (ed. Limina), la sua autobiografia appena uscita anche nel nostro paese, di cui vi presentiamo qui in estratto.
L’autobiografia di Mark Hoppus
Il mondo del punk, dello skateboard e di MTV. L’infanzia tormentata, la musica e il successo planetario e poi i disturbi di ansia, la lotta contro il cancro, la rinascita. In Fahrenheit-182. Un memoir, il fondatore e bassista dei Blink-182 si mette a nudo come non aveva mai fatto.
Questa è la storia di un ragazzo assolutamente normale che si ritrova rockstar. Il bambino sballottato tra le case dei genitori dopo il loro divorzio burrascoso diventa un adolescente che si ribella a suon di musica e skateboard, poi uno studente che molla l’università, incontra la propria anima gemella musicale e in un garage fonda una band destinata a infrangere record su record.
Tra la fine degli anni ’90 e i primi Duemila, i Blink-182 passano da suonare in locali anonimi a riempire gli stadi, vendono oltre cinquanta milioni di dischi e fanno diventare mainstream il pop punk. Ma il successo è solo una faccia della medaglia. Il rovescio porta con sé l’ansia, i contrasti con i compagni di band – e di vita – e la depressione.
Mark Hoppus racconta con umorismo e sincerità disarmante cosa c’è dietro le luci della ribalta: le follie dei tour, le separazioni dei Blink-182, la storia d’amore con sua moglie, la nascita del figlio e la recente, durissima, lotta contro il cancro. Sintetizza lui: «Al di là dell’essere un buon marito e un buon padre, tutto ciò per cui mi piacerebbe essere ricordato è che sono Mark dei Blink-182».
Le prime volte dei Blink-182 in Italia
All the Small Things superò all’istante What’s My Age Again?, scalando le classifiche di radio e MTV. Uscì dal circuito delle radio alternative e sconfinò nel territorio del pop, restando in rotazione su TRL per quasi due anni. Prese davvero una vita propria, e tutt’oggi resta il nostro brano di maggiore successo. Sono passati più di vent’anni ed è ancora in giro: nel 2022 è stato l’inno dei Colorado Avalanche vincitori della Stanley Cup, e qualche tempo prima era finito nella colonna sonora di Alvin Superstar 2.
Un po’ paradossale, data la nostra intenzione originale di prenderci gioco del pop “da classifica”. Ma il mondo che beffeggiavamo ci aveva accolti a braccia aperte. E nei tour promozionali all’estero, complici le barriere linguistiche, il tutto prese una piega ancora più assurda.
Anche in Italia avevamo in programma un’ospitata a TRL. Il van ci venne a prendere in albergo per portarci agli studi di MTV a Milano. Una volta sul posto ci dissero che dovevano farci passare da un’entrata secondaria, perché fuori c’era un bel po’ di gente. Gli addetti stampa – una recente aggiunta al nostro staff – ci scortarono dritti dentro. Mi girai un attimo e vidi un cordone di agenti di polizia intenti a contenere come potevano una massa di adolescenti urlanti.
«Ma chi stanno aspettando?» chiesi, cercando di sovrastare il caos.
«Voi!»
Salimmo nello studio al piano di sopra, con un balcone affacciato direttamente su piazza del Duomo: sotto di noi c’era una marea infinita di ragazzi, con tanto di cartelli con i nostri nomi e le nostre facce. C’era pure chi aveva portato un lenzuolo con la scritta “I <3 blink-182”.
Dopo la trasmissione ci rificcarono di corsa sul furgone e partimmo a tutto gas, coi fan alle calcagna manco fossimo i Beatles, cazzo. L’autista sfrecciò attraverso un dedalo di viuzze per sfuggire alla folla. Poi, di colpo, svoltato un angolo, inchiodò per evitare un frontale con un taxi. Per un attimo restammo immobili a fronteggiarci, poi il tassista si sporse dal finestrino per insultarci: «Che cazzo fai?!» Ma quando vide la valanga umana in arrivo alle nostre spalle, ammutolì e sgranò gli occhi. La faccia divenne una maschera di cera. Nel giro di pochi secondi il taxi fu inghiottito da un ammasso di persone che battevano sui finestrini.
Qualche tempo dopo, invitati a suonare a un festival a Bologna, ci aspettavamo più o meno la stessa reazione. C’erano circa cinquantamila persone e noi eravamo gli headliner dopo gruppi più pesanti tipo Limp Bizkit e Deftones. Salimmo sul palco sentendoci stocazzo: eravamo in cima alle classifiche e in Italia ci adoravano. Una passeggiata, no?
Mi avvicinai al microfono. «Ciao, siamo i blink-182 da San Diego, California. Abbiamo fatto un bel po’ di strada per venire fin qua. Buon divertimento!» Subito dopo, qualcosa mi colpì alla gamba. Ma che cazzo… vabbè, fa niente, andiamo avanti. Non è certo la prima volta che ci lanciano roba sul palco. Stiamo spaccando, la gente è carica, il pogo alza nuvole di polvere che scompaiono nel buio. Dài, cazzo.
Poi mi arrivò addosso qualcos’altro. Merda, questi non scherzano. Continuammo a suonare, ma l’atmosfera si fece sempre più tesa. Quando attaccammo All the Small Things, qualcosa come al triplo della velocità, la situazione degenerò definitivamente. Il pubblico iniziò a bersagliarci con pietre e bottigliette d’acqua piene di ghiaia. Cioè, si erano pure impegnati un sacco per riempirle di sassolini! A un certo punto ci arrivarono anche un paio di palle da biliardo saltate fuori da chissà dove.
Suonammo tipo otto canzoni prima che il nostro tour manager ci facesse cenno di andarcene, fuori di sé dalla paura. Scendemmo dal palco in fretta e furia e puntammo verso i camerini. Tutti, anche i membri delle altre band, avevano un’aria da funerale. Ci sbattemmo la porta alle spalle e ci guardammo in faccia ancora increduli. «Cosa cazzo è successo?» A quanto pare nel pubblico c’era una frangia di metallari incazzatissimi che non sopportavano di vederci lì. Cioè, a dire il vero odiavano le boy band, ma la nostra etichetta italiana ci aveva venduto come tali: ai loro occhi, quindi, eravamo solo tre stronzi in completo bianco che ballano davanti al loro jet privato, come nel video. Non avevano afferrato l’ironia, e di certo non si sarebbero fatti rovinare la serata da un branco di fighetti del cazzo sbarcati belli belli dall’America.
Gli addetti alla sicurezza ci buttarono sul furgone e chiusero le porte, intimandoci di tenere giù la testa. Temevano che la folla inferocita ci vedesse e… cosa? Che ci tirasse fuori a forza? Ci facesse sfilare per la città come criminali? Ci impiccasse al palo più alto del circondario? Di certo non avevamo intenzione di scoprirlo. Mentre ce ne andavamo incrociammo una fila di lampeggianti della polizia che procedevano in direzione opposta, verso l’arena. Una volta giunti all’albergo, ci fiondammo dentro di soppiatto.
Ecco come i Blink-182 se ne andarono dall’Italia: sdraiati sul pavimento di un furgone, metà ridendo e metà cagandoci addosso. Ma soprattutto incazzati con la nostra etichetta e determinati a non lasciare mai più la nostra immagine in mano altrui. Tom se la legò al dito: per i due anni successivi si rifiutò di mangiare gli spaghetti alla bolognese.