Il senso della fine dei Blur è sempre stato un nuovo inizio
Dopo l’attesissima reunion a Wembley, il 22 luglio la band simbolo del Britpop è approdata a Lucca per l’unica data italiana. Ecco com’è andata
È successo veramente. Sabato 22 luglio 2023 i Blur sono tornati a esibirsi nel nostro paese per la loro unica data italiana dopo 10 anni di assenza. Per l’occasione la città di Lucca ha aperto le sue porte a circa 35 mila fan arrivati da tutta Italia per celebrare la nostalgia di un tempo che fu – quello degli anni ‘90 – in cui eravamo felici e (non) lo sapevamo.
L’eterno ritorno del Britpop
Un tempo che dal punto di vista della varietà musicale aveva moltissimo da offrire. Ma in cui a farla da padrone, per un breve momento, furono i gruppi inglesi della scena Britpop. Di cui i Blur, esponenti della classe media londinese, erano stati alfieri insieme agli Oasis – acerrimi nemici della working-class di Manchester, guidati dai fratelli Gallagher. A completare la rosa delle prime file c’erano poi gli altri londinesi, iniziatori involontari del “movimento”, gli androgini e decadenti Suede di Brett Anderson. E un po’ più defilati gli outsider di Sheffield, ovvero i Pulp di Jarvis Cocker.
Per chissà quale congiuntura astrale in questo particolare momento storico tutti questi gruppi stanno facendo di nuovo parlare di sé. I Pulp si sono da poco riuniti per una serie di concerti memorabili. Gli Suede hanno pubblicato un disco nuovo l’anno scorso e gli Oasis… vabbè gli Oasis non fanno testo perché ormai si parla della loro reunion un giorno sì e un giorno no. Ma il trentennale del loro primo album è alle porte e l’anno prossimo potrebbe essere davvero quello buono.
Che fine avevano fatto i Blur?
I Blur, invece, di fatto non si sono mai sciolti, per cui non è propriamente corretto parlare di reunion. In ogni caso il loro è un ritorno tanto gradito quanto inatteso. Considerato anche che non pubblicavano un disco dal 2015 – il deludente The Magic Whip, lasciato giustamente fuori dalla scaletta di sabato sera – e che i vari membri della band da anni sono ormai indaffarati in tutt’altre faccende. Damon Albarn sempre più preso dai suoi mille progetti, tra band virtuali (Gorillaz), supergruppi (The Good, The Bad & The Queen), musical cinesi (Monkey: Journey to the West), musica etnica (Africa Express). E album solisti sempre più introspettivi (Everyday Robots e The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows).
Graham Coxon, dal canto suo, aveva già abbandonato la nave da prima, proprio per dedicarsi alla sua carriera solista (che ad oggi conta 8 album). Salvo poi tuffarsi, più di recente, nella realizzazione di colonne sonore per Netflix. Vedi la fortunatissima The end Of The Fucking World, e trovando, infine, nuova linfa vitale al fianco della compagna Rose Elinor Dougall, con cui ha appena pubblicato il disco d’esordio a nome The WAEVE.
Nessuno se n’è accorto, ma anche il batterista Dave Rowntree ha pubblicato quest’anno un disco solista intitolato Radio Days. Mentre il bassista Alex James è l’unico che si è ritirato a vita privata per produrre formaggio.
Cos’è successo a Lucca?
Eppure, in qualche modo, i 4 ex ragazzi, ormai splendidi cinquantenni, devono aver trovato il tempo di tornare a suonare insieme. Perché qualche mese fa è arrivato dal nulla l’annuncio di un nuovo album – The Ballad of Darren – pubblicato proprio venerdì. E anticipato da due ottimi singoli, St. Charles Square e The Narcisist, con cui hanno quasi chiuso il concerto prima di passare ai bis. Tra questi a Lucca c’è stata anche l’esecuzione di un terzo brano nuovo – Barbaric – che non era ancora mai stato eseguito dal vivo. Ma che ha conquistato subito il pubblico con un ritmo incalzante e una frase-ritornello già manifesto di questa nostalgia di ritorno. “We have lost the feeling that we thought we’d never lose. Now where are we going?”. “Abbiamo perso quel sentimento che pensavamo non avremmo mai perso. E ora dove stiamo andando?”. Bella domanda.
Se qualcuno aveva ancora qualche dubbio sulla tenuta della band a così tanti anni di distanza, beh questi sono stati spazzati via quasi subito da Albarn e compagni che sul palco si trovano a menadito come se il tempo non fosse mai passato. A volte magari il suono non è stato perfetto, altre volte si è interrotto del tutto, ma i problemi tecnici sono stati risolti in fretta. E poi a nessuno frega nulla, è una festa, gli anni ’90 non sono mai finiti e i 4 londinesi sono carichissimi. Ridono, scherzano, si divertono tra loro e giocano con il pubblico. Il calore umano è percepibile ben oltre quello della temperatura torrida della giornata di fine luglio. Soprattutto nelle prime file dove c’è gente che attende da tutto il pomeriggio.
Lo avevamo già visto nei concerti di Hyde Park del 2009. In quello delle olimpiadi di Londra del 2012 e nei video di Wembley di qualche settimana fa. Ma ora che ce l’abbiamo davanti agli occhi è cosa certa: ogni volta che questi quattro esseri umani tornano insieme sul palco si scatena un’alchimia che ha pochi eguali.
Dopo l’apertura spiazzante di St. Charles Square, forse ancora troppo poco conosciuta ai più, i Blur ci catapultano immediatamente nella “madchester” acid house di There’s No Other Wa. Unico brano estratto dal loro album d’esordio. Ed è già delirio o – come dicono i più giovani – “da lì in poi non s’è capito più niente”. Il concerto è un’orgia di hit e hit mancate che travolgono il pubblico, attraversando tutte le fasi musicali della band al completo. Dagli esordi “baggy” di cui sopra alle sperimentazioni di 13, lasciando fuori, però quelle di Think Thank, forse perché considerato a tutti gli effetti un album solista di Albarn. Quindi niente Out Of Time, perché il tempo dei Blur non è ancora scaduto e il senso di questa “reunion” è proprio quello. Ma ci torneremo.
Nella prima parte del concerto non c’è spazio per la commozione. Anche un’altra ballad come Under The Westway (su cui Albarn era scoppiato a piangere a Wembley) viene lasciata fuori. A fare la parte del leone, invece, sono i brani più tosti della cosiddetta “Life Trilogy” dei Blur, composta da Modern Life Is Rubbish, ParkLife e The Great Escape, tra cui anche alcune piacevoli sorprese, assolutamente non scontate come Tracy Jacks, Villa Rosie, Oily Water e Advert.
Albarn è gasatissimo, fa avanti e indietro dalla pedana, che gli consente di arrivare in mezzo alla gente del pit. Scende a cantare fra a loro e ogni volta che si concede più da vicino si scatena una bolgia.
A voler trovare il bandolo della matassa di questo casino organizzato, le due costanti dei Blur sono sempre state l’ironia e il divertimento da una parte e la malinconia dall’altra. Il concerto di Lucca cerca di coniugare questi due poli, ma l’equilibrio perfetto è forse quasi impossibile da raggiungere. L’esibizione dei Blur mette così sul piatto tutto il campionario di emozioni che si possono provare durante questa sorta di bipolarismo indotto.
C’è l’incontenibile gioia sculettante di Girls & Boys, (con Albarn che indossa la stessa felpa che aveva nel video ufficiale di 30 anni fa) e l’esplosione di euforia contagiosa di Song 2, passata dall’essere la colonna sonora di FIFA ’98 al diventare la colonna sonora degli stadi veri e propri. Ma ci sono anche la stretta al cuore di To The End e la rilassatezza di Coffee & Tv. Anche se stavolta non c’è il ragazzo vestito da cartone del latte che avevamo visto salire sul palco di Milano nel 2013.
C’è, infine – proprio nella sua assenza – tutto il senso della fine di Out Of time, che diventa nuovo inizio nella malinconia agrodolce di Tender, prolungata dal canto del pubblico oltre la naturale scadenza del brano. O, sarebbe meglio dire, oltre la naturale scadenza del tempo in senso assoluto. E’ l’apice della serata ma non è la fine.
ll senso della fine dei Blur
Ecco, se c’è una cosa che forse unisce le canzoni dei Blur con il loro pubblico e l’evoluzione stessa della band è questa. Il senso della fine nei Blur è sempre stato un nuovo inizio (To The End For Tomorrow?). Nel ’97 hanno ucciso il Britpop per passare ad altro e sperimentare nuove sonorità. Poi nel 2003 hanno ucciso i Blur per dedicarsi a nuovi progetti, salvo poi tornare periodicamente a riesumare la band e darle nuova vita. Non è forse quello che facciamo tutti crescendo?
Per questo gli altri due apici del concerto sono stati raggiunti da due canzoni legate a doppio filo con il passato e il futuro, quasi come se fossero una la naturale prosecuzione dell’altra. End of a Century – memoria di un tempo in cui “we wear the same clothes cause we feel the same” e la fine del secolo non era niente di speciale, e The Universal, che inizia, invece, con il secolo nuovo, “This is the next century” e viene posta quasi sempre come gran finale di tutti i concerti dei Blur. Compreso questo.
Forse proprio perché c’è un momento, verso la fine di questo particolare universo composto solo dalla band e dal suo pubblico, in cui la canzone si ferma per qualche secondo a contemplare sé stessa, per poi esplodere di nuovo in tutta la sua magnificenza. In quella piccola pausa in cui il tempo si ferma c’è tutto il senso della fine dei Blur. A conferma che sì, è successo veramente. E “we can start over again”.
Articolo di Andrea Pazienza