Trent’anni di “Parklife” dei Blur
Il 25 aprile 1994 usciva il terzo album della band britannica, uno dei capisaldi del britpop, il disco che ha lanciato definitivamente la carriera di Damon Alabarn e soci
Come ho scoperto i Blur? Grazie alla recensione di un loro live pubblicata, verso gli inizi degli anni ‘90, sul settimanale britannico NME. All’epoca, senza streaming, ascoltare un gruppo voleva dire avere il supporto fisico. Il loro primo album omonimo del ’91 fu preceduto da due singoli: She’s So High e There’s No Other Way. Fortuna vuole che lavorando in un negozio di dischi a Milano che importava dal Regno Unito, fui tra i primi a sentirli. Settimanalmente i clienti accorrevano per farsi consigliare le nuove uscite. Tra questi anche il direttore di Billboard Italia al quale, ricordo ancora oggi di aver detto: «Questi ti piaceranno, sono un gran gruppo».
Da allora n’è passata di acqua sotto i ponti e la band di Colchester, l’anno scorso, ha realizzato il suo nono album The Ballad Of Darren. Oggi però, siamo qui per celebrare il trentennale dell’epocale terzo disco Parklife, pubblicato dai Blur il 25 aprile del 1994.
“Parklife”, il disco del riscatto dei Blur
Dopo l’uscita, di scarso successo, dei loro primi due ottimi album – Leisure e Modern Life Is Rubbish – la band inglese sembrava trovarsi a un punto morto. Schiacciati dal crescente successo della musica grunge americana, molte delle band che si rifacevano al movimento “indie” rischiarono d’implodere. Il loro manager Dave Balfe, infatti, era in procinto di lasciarli andare. Nel mondo attuale non so quante major discografiche, dopo due fallimenti del genere, punterebbero a realizzare il terzo album di una formazione come i Blur. Ma tant’è, le cose stavano cambiando.
Nuovi gruppi si affacciavano all’orizzonte, ad esempio, ma non solo, Suede e Oasis. Furono i prodromi di quello che poi passerà alla storia come movimento britpop e Parklife dei Blur decisamente fu l’album che incarnò lo spirito di rivalsa della musica Made in UK. Un disco storico quindi, ma non solo. Provvisoriamente intitolato London (non mancavano, infatti, alcune influenze suscitate al cantante Damon Albarn dalla lettura del libro di Martin Amis London Fields), è un prodotto iconico in tutto e per tutto. A partire da quella copertina che riporta una foto scattata in un famoso cinodromo londinese.
Il disco è stato concepito da Damon Albarn un po’ a spizzichi e bocconi durante una tournée e l’altra con rapidi ritorni in studio. Alla consolle troviamo Stephen Street, già noto per i sui trascorsi come produttore degli Smiths e che ha lavorato a ben quattro album del gruppo. A tal proposito, qui mi dilungo con un aneddoto che ben si inquadra nella dinamica dell’epoca.
“Disco Song”
Il 4 novembre 1993 la band si esibì per la prima volta in Italia vicino a Milano, a San Colombano al Lambro suonando brani dai primi due album. L’interesse mediatico fu minimo e ancor meno il contributo di noi giornalisti accorsi al locale Canguro. Ricordo però che Damon Albarn rilasciò, forse per testare la bontà del prodotto, una cassettina con un brano precursore del futuro Parklife. «E’ del materiale – disse – per il nuovo disco, ma è solo un demo che stiamo registrando con il nome provvisorio di Disco Song”».
Il primo ascolto di quella che poi sarebbe diventata Girls & Boys fu spiazzante. Un ritmo molto dance su inserti synth-pop vagamente anni ’80, un qualcosa che i Blur non avevano mai sperimentato. Una mossa che poi però diventerà vincente, non solo come singolo, ma anche come brano incastonato all’interno di un album musicalmente molto sfaccettato. Credo che a posteriori questa sia stata la forza di Parklife: qualsiasi influenza musicale avessero inserito in quel disco sarebbero sempre stati loro, i Blur.
Non per niente si spazia dal walzer strumentale di The Debt Collector, in cui avrebbe dovuto recitare un poema Phil Daniels. Il protagonista di Quadrophenia fu, invece, successivamente reclutato per l’omonima e trionfale marcia pop Parklife, apparentemente una title-track che sembrava celebrare l’Englishness della working class, ma che in realtà era un brano incentrato su chi frequenta o lavora nei parchi.
Come dimenticare, poi, la Sid Barrett-iana Far Out e la cavalcata new-wave anni ’80 Trouble In The Message Center, un pezzo che ha influenze alla Wire. La passione per questa formazione del chitarrista Graham Coxon è risaputa. E poi le variazioni ‘60s Kinks-eiane di Tracy Jack, vero manifesto romantico della nuova scena Britpop. Alla languida ninna nanna di To The End, con la partecipazione di Laetitia Sadier degli Stereolab, fa da contrappasso la muscolare e punkeggiante Bank Hollyday.
Senza tralasciare chiaramente la toccante End Of a Century coadiuvata da una emozionante sessione d’ottoni. Il finale è riservato alla psichedelia di This Is A Low, brano che, dopo un delicato inizio, esplode in un crescendo da brividi che lascia poi spazio per la coda circense strumentale di Lot 105.
Ecco allora Parklife: un album che ha saputo unire il passato e il presente in maniera impeccabile e che, dopo trent’anni, appare ancora come uno dei migliori esempi di musica pop realizzata negli anni ‘90.
Articolo di Carlo Villa