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“Yes, it really really really could happen”: un weekend indimenticabile con i Blur

Un anno la band di Damon Albarn si esibiva davanti a oltre 150.000 fan in due serate e domani sarà finalmente disponibile su Parlophone la testimonianza di quei due grandiosi concerti. Per riviverli assieme, abbiamo chiesto a Federico Russo di Radio Deejay di regalarci nero su bianco le coloratissime emozioni di quello show

Autore Tommaso Toma
  • Il25 Luglio 2024
“Yes, it really really really could happen”: un weekend indimenticabile con i Blur

Sono eventi che non si scordano facilmente. Soprattutto per chi ancora oggi ama non solo il brit pop ma tutta l’effervescenza della scena indie rock degli anni ’90 UK. Da domani le emozioni dei due live nello stadio di Londra di Damon Albarn e soci si potranno rivivere sul classico supporto vinile/CD (e in digitale), grazie a Blur: Live at Wembley Stadium. Tra i brani nella setlist ci sono The Narcissist e St Charles Square dall’ultimo album The Ballad of Darren. Oltre classici della prima ora come There’s No Other Way, Popscene, Beetlebum, Coffee & TV, Parklife, Song 2, Girls & Boys, Tender e The Universal.

Il film e il documentario

Ma non solo l’audio è in arrivo. Infatti il 6 settembre esce nei cinema in UK e Irlanda anche la versione film del concerto sempre con lo stesso titolo. Mentre il chiacchierato documentario Blur: To The End è già nelle sale cinematografiche in UK e Irlanda dal 19 luglio. Un docufilm che racconta il capitolo più recente della storia della band. Ripreso durante il periodo in cui i Blur hanno fatto il loro ritorno a sorpresa ed emozionante con il primo album in 8 anni, The Ballad of Darren. Ma per rivivere al meglio quella due giorni londinese abbiamo chiesto un racconto a Federico Russo. Lui è un autentico buongustaio della scena indie UK anni ‘90 (ma non solo) che ascoltate su radio Deejay nel programma Summer Camp, in compagnia di Francesco Quarna e Nikki.

Di seguito il ricordo di Federico Russo del concerto al Wembley Stadium di Londra.

Yes, it really really really could happen

La prima volta che ho comprato un disco dei Blur è stata nell’autunno del 1995, da Black Out, negozio di dischi in Piazza della Libertà a Firenze. Ero appena 14enne e reduce dalla sbronza di Definitely Maybe degli Oasis, quando, con la mia frangetta alla Liam Gallagher tagliata male, entro e chiedo informazioni su The Great Escape, quarto album dei Blur che mi stavano conquistando con il nuovo singolo Country House.

Osservo la copertina, il retro in cui i ragazzi campeggiano vestiti da ufficio, ironici, e provo a farmi rassicurare dal commesso che quelle sarebbero state 35 mila lire di risparmi sanguinosi spese bene. «Ma guarda, che vuoi che ti dica, è musica inglese» è l’attenta recensione del tipo. Visto il colpo di fulmine per quell’altro gruppo britannico, decido che è il caso di investire e diventare più povero. Bum. Ci divento completamente scemo e in pochi giorni ho tutti i dischi precedenti.

Sono passati quasi trent’anni. Al posto di Black Out in Piazza della Libertà c’è ora un tabaccaio, ma a me in questo momento non me ne importa una sega, perché sono a Londra, ci sono 25 gradi, il sole splende, ho un po’ di hungover, sto mangiando uno schifoso sunday roast e bevendo un’ottima Guinness in un pub di Dalston. Con me, una trentina di amici in trasferta contano le poche ore che ci separano dalla seconda e ultima serata dei Blur a Wembley. Sono felice.

Lo stadio non è dietro l’angolo. Cambiamo un po’ di metro, compriamo qualche birra in lattina a buon mercato durante il viaggio e attraversiamo la città da est a ovest senza paura. Usciamo in superficie dopo un’ora e mezzo e percorriamo il vialone iconico alla fine del quale c’è lo stadio che ho visto solo in tv. Adesso è davanti a me ed è maestoso, imponente, rassicurante, e io ho già i brividi, manco ci dovessi salire io su quel palco. I gradini che conducono al prato con la colonna sonora di Paul Weller. Elegantissimo, con i suoi capelli sempre incredibili intrattiene il pubblico già al completo.

9 luglio, sono le 19.30, il cielo di Londra è ancora terso e chiaro come se fosse mezzogiorno

Ci piazziamo sulla destra all’altezza del centrocampo dove è stato dato il calcio di inizio di centinaia di finali inglesi ed europee. Al posto dell’inno della Champions parte St Charles Square e i Blur compaiono sul palco con i Dr. Martens Cherry, i jeans, la polo della Fila. Sono gli stessi per i quali ho speso le migliori 35 mila lire della mia adolescenza. I ragazzi sono carichi. Il concerto è una selezione perfetta dei loro successi. Il nuovo album sarebbe uscito due settimane dopo. In scaletta sono previste solo due delle nuove tracce, i singoli The Narcissist e la canzone di apertura dello show.

Mentre scrivo queste righe, ho davanti i video e le foto salvate sul telefonino. Scorro le immagini e mi rivedo con una maglietta azzurra del tour appena comprata fuori dallo stadio, la maschera di Darren (detto Smoggie, guardia del corpo della band, uomo di fiducia, nonché simbolo del tour e del nuovo album The Ballad of Darren) dietro la nuca con l’elastico che mi stringe sulla fronte e sembra bloccare il flusso dei pensieri e delle preoccupazioni. La faccia da scemo e gli occhi lucidi che esplodono poco dopo sulle note di To The End.

Mi guardo intorno. Ci sono le persone a cui voglio bene, sul palco la band del cuore, gli spalti sono colorati di buongustai di ogni età, genitori, figli, forse nonni. Alla mia destra, una ragazza inglese ci dice di avere 15 anni, ha una maglietta degli Oasis e il rimmel che solca le guance sciolto dalle lacrime. Alla mia sinistra un mio amico ha i capelli brizzolati, le stesse guance umide, non ha il rimmel. Una gigantesca mirrorball penzola al centro di Wembley e inizia a roteare sulle note di The Universal, la canzone più bella, e le luci ora sì che sono migliaia. Sembrano lentiggini, brillantini che scorrono sulle nostre facce in estasi, perché siamo felici e ci stiamo facendo caso in continuazione.

Chissene se l’indomani ho un aereo alle sette del mattino, se devo avviarmi in aeroporto alle cinque, se devo andare in onda in radio con un’ora di sonno negli occhi. Qui è tutto perfetto perché arriva Under The Westway, la canzone che in un punto, in un preciso punto dell’ultimo ritornello, quando dice “Paradise not lost, it’s in you” ha la capacità di farmi commuovere sempre. Qualsiasi cosa faccia, ovunque mi trovi. Figuriamoci adesso, che già vi ho parlato della mia debolezza emotiva mentre me ne sto lì imbambolato nel cuore di Wembley. Mi rassicuro nel constatare che non sono il solo a peccare di sensibilità tra gli 80mila presenti.

Sull’ultimo colpo di pianoforte, Damon Albarn scoppia a piangere. È un pianto liberatorio, di quelli veri, con i singhiozzi. Un’esplosione che monta da 35 anni di carriera (uno per ogni mille lire che ho investito da pischello). E io, in quell’istante, lo capisco Damon. La avverto palese quella sensazione di aver cambiato pagina e aver salutato, celebrato un passato esaltante, fatto di record, litigi, scioglimenti, reunion, canzoni eterne. Leggetela come l’emozione di chi corona un sogno a pochi giorni dall’uscita dell’album più scuro e cupo della propria carriera. Sono le stesse lacrime mie.

Mi accorgo stasera, a Wembley, di aver chiuso un lungo capitolo della mia vita, con le canzoni che amo e che mi hanno modellato e trasformato in quello che sono oggi. Da domani si diventa davvero adulti. O forse no, dato che al risveglio mi accorgo di aver perso l’aereo per Milano e di essere costretto a fare la radio via telefono dal centro di Londra. La mia nuova vita, quella da adulto, comincia proprio di merda. Adesso metto su il vinile del live, così posso ritrovarmi a Wembley quando mi pare e tornare a casa in perfetto orario. Yes, it really really really could happen.

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