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Bon Iver e la distruzione dell’hype come poetica

Per comprendere a pieno il quinto album del gruppo di Justin Vernon, “SABLE, fABLE” si può partire dal modo in cui è stato rilasciato. Quando è uscito, venerdì scorso, solo metà dei brani era ancora inedita: segno che a volte la narrazione può prendere strade alternative e che non è tutto rosa quello che sembra

  • Il17 Aprile 2025
Bon Iver e la distruzione dell’hype come poetica

Foto di Graham Tolbert

In un’epoca in cui svuotare il profilo Instagram è diventato lo sport preferito degli artisti, Bon Iver se ne sono infischiati dell’hype e della pianificazione. Hanno proprio giocato a distruggerla. Sono partiti dalla decostruzione sistematica di quel tipo di attesa spasmodica che caratterizza i grandi ritorni – il loro arriva dopo sei anni – pubblicando quasi tutti i brani. Tant’è che quando venerdì scorso è uscito SABLE, fABLE, i fan avevano sei canzoni inedite su dodici da ascoltare. Esattamente la metà. Nonostante questa strategia fuori dal tempo e dalle logiche attuali, il quinto atteso – perché comunque erano passati sei anni – disco della band di Justin Vernon funziona sia nelle sue componenti singole che come sentiero personale nel quale ognuno può ritrovare almeno qualcuna delle proprie orme.

A rincarare la dose poi ci ha pensato proprio il cantautore statunitense che, nelle varie interviste rilasciate, ha ribadito che per il momento non sente il bisogno di andare in tour. Fare musica per il semplice bisogno di farla, con l’unico secondo fine di tentare di riempire un vuoto e affrontare il nero. Quello stesso nero che ingloba il rosa nell’artwork dell’EP SABLE, pubblicato prima separatamente, poi divenuto incipit dell’album, eche rappresenta un ritorno alle origini.

THINGS BEHIND THINGS BEHIND THINGS, scritta durante il periodo del Covid, descrive il rincorrersi dei pensieri tossici e dei dubbi che hanno continuato a tormentare Justin Vernon anche durante le date del suo ultimo tour del 2023. Le negatività intrusive del primo brano hanno i colori opachi e il suono acustico del debutto Forever Emma, Forever Ago. Il primo singolo S P E Y S I D E è persino più vicino del precedente alla nudità delle prime canzoni. Sarà perché scritto durante un ritiro in Winsconsin, sorseggiando il whisky scozzese che dà il titolo alla traccia.

Nella copertina definitiva del disco il nero che circondava tutto è al centro. Rimpicciolito e, in una visione prospettica tridimensionale, più indietro rispetto al rosa dell’amore e della speranza che caratterizzano fABLE. Le fiabe, si sa, hanno il loro lato oscuro che va sfruttato per imparare qualcosa, ma è necessaria una presa di coscienza. Il momento catartico – uno dei più alti dell’intero progetto – è AWARD SEASON. Il termine Sable – il colore più scuro e nero sulla terra – diventa un luogo e una condizione. «I can handle / Way more than I can handle»è l’accettazione, come fosse un premio, dell’oscurità e di quel cambiamento nelle relazioni e nel rapporto con se stessi che incute paura. Non è un caso che, proprio qui, il suono si apra con gli ottoni, dopo l’inizio quasi a cappella, ricollegandosi al precedente progetto del 2019 i,i.

Come un gatto che si arrampica sugli alberi

I Bon Iver non avevano bisogno di creare un’ulteriore narrazione perché di per sé SABLE, fABLE ne offre diverse. Per esempio, il processo di apertura verso il rosa che inizia dall’interludio Short Stories in cui l’inverno lascia spazio alla primavera, potrebbe essere invertito. E, nella realtà dei fatti, questo settimo disco non è partito dal lato più oscuro. Il 22-2-22 (due febbraio 2022, fa più effetto scriverlo con le cifre) all’April Base in Wisconsin si è presentato Jim E-Stack, producer e collaboratore storico di Vernon, con Danielle Haim. La neve ha reso l’incontro speciale favorendo la genesi di If Only I Could Wait, una ballad che riprende le fila sonore di i,i, le infarcisce di melodia, archi (suonati da Rob Moose) e un senso di speranza irraggiungibile. La stratificazione restituisce la stanchezza emotiva espressa dalle parole del testo.

La seconda parte del disco, caratterizzata dalla fine dei titoli in capslock e da un allargamento strumentale e stilistico, è frutto di un’altra intuizione. Quella dalla quale Justin ha compreso la direzione che avrebbe dovuto prendere il progetto e che, effettivamente, qualcosa di organico poteva prendere forma. Non è un caso che Everything is Peaceful Love si trovi proprio al centro della tracklist. L’infatuazione e la genesi di una relazione sconvolgono in positivo e in negativo: diventa complicato nascondere le proprie emozioni. Un atteggiamento che aveva quasi rappresentato una poetica manifesto dei Bon Iver. Questa volta non è possibile nascondersi lungo il torrente come recitava 715 – CR∑∑KS. «And damn if I’m not climbing up a tree right now» canta nel ritornello Vernon. Si paragona implicitamente a un gatto che, a prescindere dal pericolo, per curiosità, istinto e volontà profonda, non può fare a meno arrampicarsi su un albero.

Il lieto fine non esiste

Vedere il mondo dall’alto dei rami, o immersi in una relazione totalizzante, come quella raccontata dall’innamorata Walk Home può farci sentire al sicuro. Addirittura, può chiudersi un cerchio con una potente affermazione di fiducia nel futuro come in From che abbraccia la semplicità delle chitarre. E poi con la corale I’ll Be There. Gli ottoni di Mike Lewis e l’elettrica di Alan Good Parker disegnano uno dei ritornelli più interessanti. Tuttavia, non esistono fiabe senza un rimprovero.

SABLE, fABLE segue il ciclo emozionale raccontato da There’s a Rythm. Un brano semi-autobiografico in cui Justin Vernon racconta quell’ennesimo capovolgimento che rischia di rigettarlo nel nero da cui sembrava essere uscito. Ma è proprio il superamento del timore di quel cambiamento a far ripartire la ruota. La capacità di togliersi la merda di dosso decantata nella stupenda e incatalogabile Day One con Dijon e Flock of Dimes. Se questo sarà veramente l’addio dei Bon Iver, nonostante qualcuno si aggrappi al titolo della conclusiva Au Revoir, l’esplosione di chitarra, il pianoforte sincopato, le voci che si incastrano apparentemente senza cognizione di causa di Day One sarebbero il riassunto perfetto di tutto: nel senso e nella musica.

Alla luce di questa uscita senza grossi proclami – considerando la portata di un gruppo che ha segnato l’alternative e non solo degli anni Dieci – la consapevole distruzione dell’hype è scelta buona e giusta. Non ce n’era bisogno. Questo disco, nato lentamente e non pensato per esplodere come un fuoco d’artificio, non voleva raggiungere il lieto fine per eccellenza perché tutte le fiabe hanno bisogno del nero. Perché anche i gatti, una volta raggiunto il ramo più alto, devono combattere con la paura dell’altezza che li separa dal punto di partenza.

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