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Addio a Brian Wilson, il genio dei Beach Boys che visse due volte

Il grande autore, cantante e bassista della band californiana è morto a 82 anni, per cause ancora sconosciute. Ci ha lasciato in eredità album che hanno rivoluzionato la musica pop

  • Il12 Giugno 2025
Addio a Brian Wilson, il genio dei Beach Boys che visse due volte

Il mondo della musica piange da ieri, 11 giugno, la scomparsa, a 82 anni, di Brian Wilson, mente, cuore, voce e basso dei Beach Boys. La sua famiglia, che ha annunciato sui social la morte del musicista e che ha chiesto privacy e rispetto per il grave lutto che l’ha colpita, non ha specificato le cause della scomparsa dell’artista, che dal 2024 soffriva di una grave forma di demenza senile.

Brian Wilson è universalmente considerato uno dei più grandi artisti della storia del pop, a cui ha donato una profondità e una raffinatezza che non aveva mai avuto prima. In realtà, della produzione artistica dei Beach Boys, viene data spesso una lettura un po’ superficiale, relegandola a musica di puro intrattenimento, divertente, ballabile, ma in fondo effimera. Giudizi che sono parzialmente condivisibili se riferiti alle loro prime spensierate produzioni, quelle della prima metà degli anni Sessanta, ma che di certo non colgono la portata rivoluzionaria di opere come Pet Sounds e Smile, due autentiche pietre miliari della musica che sarebbe riduttivo definire solo come “leggera”.

Il mito del surf

La storia dei Beach Boys è affascinante, ricca di colpi di scena ed emblematica del sogno americano. Un’epopea nella quale si alternano trionfi, screzi, rovinose cadute personali e insperate resurrezioni umane e artistiche.

Negli anni Sessanta i Beach Boys ingaggiarono negli Stati Uniti un appassionante derby di vendite con i Beatles, in una delle più fertili e salutari competizioni che la storia del rock ricordi, con reciproci apprezzamenti da parte dei due gruppi. Un periodo in cui la musica, in California, si intrecciava indissolubilmente al mito del surf, non semplicemente uno sport, ma un vero e proprio stile di vita, improntato sull’audacia e sulla libertà individuale.

Curioso il fatto che la mente e l’anima dei Beach Boys, il geniale Brian Wilson, fosse l’esatto opposto del surfista alto, biondo e muscoloso. Wilson era un giovane dalla personalità introversa e irrequieta, corpulento e sordo da un orecchio, ma dotato di uno straordinario estro compositivo. Fu lui a fondare il gruppo insieme ai fratelli minori Carl e Dennis, al cugino Mike Love e all’amico di sempre Al Jardine.

Dei cinque componenti originari dei Beach Boys, solo Dennis aveva sfidato l’oceano con una tavola e fu proprio lui a ispirare l’idea di scrivere brani sul mondo del surf. Nacque così nel 1961 la spensierata Surfin’, che aprì la strada al successo di Surfin’ Safari, I Get Around, Barbara Ann, Fun, Fun, Fun e Surfin’ U.S.A. Canzoni caratterizzate da un’esuberanza quasi adolescenziale e impreziosite dagli straordinari impasti vocali dei cinque componenti, che hanno diffuso in tutto il mondo il mito dell’eterna estate californiana, tra surf, amori balneari e falò sulla spiaggia.

A un ascolto più attento, però, la spensieratezza lasciava spazio a momenti di malinconia e di riflessione, come se nell’aria si respirasse la fine dell’estate, metafora della gioventù ormai prossima a sfiorire.

Il capolavoro Pet Sounds

Nel 1964, però, qualcosa si ruppe nella gioiosa macchina da tour e da hit che erano diventati i Beach Boys. Brian era stanco di quello stile di vita frenetico, scandito da voli, alberghi, concerti e feste. Lui amava soprattutto la musica, non i lustrini dello show business, né il fanatismo delle fan, che andavano pazze per i più atletici Mike Love e Dennis Wilson. Così il bassista, pianista, cantante ma soprattutto mente della band si ritirò nel suo studio di registrazione per comporre, insieme al paroliere Tony Asher un nuovo, ambizioso album, lasciando a Bruce Johnston il compito di sostituirlo in tour.

La fine dell’estate è il fulcro tematico del capolavoro Pet Sounds del 1966, da alcuni considerato il migliore album pop rock di sempre. Un disco rivoluzionario e ambizioso, ideato, composto e arrangiato da un Brian Wilson in stato di grazia, che conteneva perle come God Only Knows, Wouldn’t It Be Nice e Sloop John B.

Un album troppo in anticipo per quei tempi, tanto che i discografici della Capitol lo osteggiarono apertamente e, una volta pubblicato, i risultati di vendite non furono all’altezza delle aspettative, salvo poi essere rivalutato negli anni successivi: Rolling Stone lo classifica ancora oggi al secondo posto tra i 500 migliori album di sempre, mentre Mojo al primo. Paul McCartney ha più volte dichiarato di aver regalato una copia di Pet Sounds ai suoi figli nei momenti più delicati della loro vita: un balsamo per l’anima che, a quasi sessant’anni dalla sua uscita, conserva intatti i suoi poteri taumaturgici.

Il naufragio del progetto Smile

Wilson volle superarsi l’anno dopo con un album ancora più radicale e innovativo, Smile, da lui stesso definito “una sinfonia adolescenziale a Dio”. Smile era un tentativo di smodata ambizione di superare la forma canzone tradizionale e i 33 giri così come erano conosciuti fino ad allora, ispirandosi musicalmente alle composizioni di George Gershwin e al muro del suono di Phil Spector.

Un omaggio a tutta la musica americana, un’opera talmente ambiziosa da sfuggire di mano al suo autore che, non riuscendo a portarla a termine, si chiuse in se stesso a causa di una grave forma di schizofrenia, frutto anche dell’abuso di LSD. Tra le varie stranezze che accompagnarono le infinite sessioni di Smile, Brian pretese che tutti i musicisti indossassero un elmetto da pompiere durante l’esecuzione di Fire, oltre a creare una spiaggia casalinga per avere i piedi nella sabbia mentre componeva al pianoforte.

Alcuni affermano che l’ascolto di Strawberry Fields dei Beatles lo sconvolse per la sua audacia, che riteneva maggiore del suo Smile, altri sostengono che sia stata l’ostilità del cugino Mike Love nei confronti di quelle musiche così oscure e spiazzanti, sta di fatto che nel 1967, tramite l’ufficio stampa dei Beach Boys, fu annunciato l’abbandono del progetto, che da allora è diventato l’album fantasma più famoso del rock.

L’inizio del percorso solista

Brian si ritirò a vita privata, isolandosi dal mondo, tanto che per tre anni non uscì dalla sua stanza, ormai schiavo delle droghe e della schizofrenia. Nel 1975 sua moglie lo affidò alle cure del discusso medico Eugene Landy, una sorta di guru che, attraverso una terapia 24 ore su 24 riguardante ogni aspetto fisico, psichico, personale, sociale e sessuale della vita del musicista, riuscì a limitare l’abuso di sostanze stupefacenti da parte di Wilson.

L’artista riacquistò anche un aspetto più asciutto e giovanile ma, al tempo stesso, sviluppò una forte dipendenza psicologica da Landy, tanto che gli altri componenti della band gli intentarono causa, accusandolo di aver sottratto somme sempre più ingenti al ricco patrimonio di Brian.

Quest’ultimo, dopo un apparente miglioramento, fu di nuovo aggregato ai Beach Boys alla metà degli anni Settanta, poi un altro ritiro e un nuovo ritorno all’inizio degli anni Ottanta. Alla fine del decennio, Brian decise di dedicarsi completamente alla carriera solista. Il suo album di debutto, intitolato semplicemente Brian Wilson, contenente il capolavoro Love and Mercy, ottenne nel 1988 buone recensioni, ma fu pressoché ignorato dal pubblico.

Un destino non molto diverso dai due album che uscirono nel 1995, I Just Wasn’t Made for These Times, con versioni rielaborate di suoi brani scritti per i Beach Boys, e Orange Crate Art, nel quale riformò il tandem con l’estroso Van Dyke Parks dopo il fallimento di Smile.

La trionfale uscita di Smile

La vita familiare iniziò poco a poco a migliorare, grazie alla riconciliazione nel 1997 con le figlie Carnie e Wendy, tanto che i tre pubblicarono insieme un disco casalingo, intitolato The Wilsons. Alla fine degli anni Novanta Brian tornò a calcare i palcoscenici, lasciandosi alle spalle la paura di esibirsi, portando nei teatri, insieme al supergruppo dei Wondermints, il suo capolavoro Pet Sounds.

L’affetto del pubblico che, pur nelle traversie degli ultimi trent’anni, non aveva mai smesso di amarlo, unito a una ritrovata stabilità psicologica, convinsero Brian a confrontarsi con i fantasmi del suo passato più doloroso, quello legato al naufragio del progetto Smile, al quale aveva donato così tante energie da uscirne con un fortissimo esaurimento nervoso.

Chiamò ancora il fido paroliere Van Dyke Parks per completare quella che è considerata la pietra filosofale del rock psichedelico, la montagna che non era mai riuscito a scalare, il muro invalicabile che aveva bloccato la sua crescita artistica.

Nel 2004 vide la luce, dopo 37 anni dalla sua prima stesura, Smile. Alla prima dell’album, presentato dal vivo a Londra, erano presenti in platea, tra gli altri, Paul McCartney e Van Dyke Parks in lacrime. Al termine dell’esibizione, i fan giunti da tutto il mondo hanno tributato una lunga standing ovation a Brian Wilson, visibilmente commosso. Finalmente era riuscito a portare alla luce la sua creatura più ambiziosa, più discussa, più elaborata, quella per la quale aveva perso il senno, la gioventù, il suo ruolo di leader all’interno dei Beach Boys.

L’ultimo periodo

Una volta rimosso quel blocco, la carriera dell’artista è tornata a fiorire, con la pubblicazione di due album eccellenti: Lucky Old Sun nel 2007 e Brian Wilson Reimagines Gershwin nel 2010. Quest’ultimo è stato avallato dai discendenti dell’autore di Rapsodia in Blu, che hanno dato a Wilson anche l’autorizzazione a completare due brani inediti di Gershwin.

A questo punto mancava un ultimo tassello alla completa resurrezione umana e artistica di Brian, ovvero tornare a cantare con il gruppo a cui aveva dato lustro e ispirazione, i Beach Boys, privi ormai da anni dei suoi fratelli Dennis e Carl, scomparsi tutti e due prematuramente. Senza di lui i Beach Boys hanno vivacchiato fino all’inizio degli anni Novanta, riproponendo nei loro concerti i vecchi successi, infinitamente superiori alle mediocri composizioni degli anni Settanta e Ottanta. Il 2012 ha segnato così il ritorno in grande stile di Brian Wilson nella band, un nuovo album, That’s Why God Made the Radio e un nuovo tour per celebrare i cinquant’anni dal loro debutto discografico.

I Beach Boys hanno dimostrato, a settant’anni suonati, di essere ancora i più grandi interpreti di una stagione lontana e irripetibile. Ogni volta che si ascolta una loro canzone degli anni Sessanta, magari anche durante una uggiosa giornata invernale, la mente vola inevitabilmente all’eterna estate californiana.

L’ultimo album solista di inediti, No Pier Pressure del 2015, mostra un Brian Wilson che, a 74 anni, era ancora in grado di dialogare con sonorità contemporanee, come rivela la freschezza di Runaway Dancer con Sebu Simonian dei Capital Cities e di Saturday Night con Nate Ruess, ex cantante dei Fun, tra surf, amori balneari e falò sulla spiaggia.

Addio, mister Wilson, e grazie per aver reso il mondo più bello con la tua musica gioiosa e raffinata.

Articolo di Gabriele Antonucci

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