“But Here We Are”, nel nuovo album dei Foo Fighters il lutto è elaborato senza retorica
Inevitabile fare i conti con la prematura scomparsa di Taylor Hawkins. Ma il nuovo disco di Dave Grohl e soci, in uscita venerdì 2 giugno, è molto più di un concept album sul senso di perdita
Copertina bianchissima, praticamente monocromatica se non fosse per un’impercettibile “increspatura” al centro e per il titolo appena visibile in basso a destra. Nessuna foto promozionale: troppo doloroso mostrarsi senza Taylor Hawkins, troppo prematuro farlo con il nuovo batterista Josh Freese. Per questo particolare “white album”, ovvero But Here We Are, in uscita venerdì 2 giugno, i Foo Fighters hanno scelto di mantenere un sistematico basso profilo.
Non un semplice concept album sul senso di perdita
Le ragioni sono ovvie e hanno a che fare con la prematura scomparsa del carismatico batterista che ha scandito la pulsazione ritmica dei Foo Fighters per 25 anni, dal 1997 al 2022. Inevitabile fare i conti, pubblicamente, con quel lutto. E allora tanto vale mettere subito le cose in chiaro, sin dal titolo, che potremmo tradurre approssimativamente con un “siamo ancora qui”.
Ma attenzione: But Here We Are non è una sorta di strano concept album sul senso di perdita e sull’elaborazione del lutto. L’album è un buon disco rock tout court, in cui i riferimenti alla morte (comunque non dominanti nei testi, e per fortuna) sono espressi in un linguaggio talmente universale da far sì che chiunque li possa accostare alla propria esperienza. Esattamente ciò che ogni buona “pop song” deve fare.
Il sound dell’album
Musicalmente e stilisticamente, But Here We Are sembra tuffarsi a capofitto nel passato dei Foo Fighters, a dischi come In Your Honor (2005) o ancora indietro, fino all’ormai classico The Colour and the Shape (1997).
È il caso della bella opening track Rescued, uscita anche come singolo. Il sound e lo stile compositivo ricordano quell’approccio fresco, chiaro, di In Your Honor, specialmente di pezzi come No Way Back e The Last Song. Anche la successiva Under You recupera quel tipo di soluzioni molto melodiche di fine anni ’90, primi Duemila. Come se riprendesse l’immediatezza di The Colour and the Shape ripulendola da quella produzione un po’ grezza delle origini.
Hearing Voices ha una strofa quasi alla Cure, armonicamente parlando: ovvero molto giocata sulle note distintive della scala minore, in particolare la sesta minore. Anche in questo caso il ritornello riprende lo stile dei primi album, con passaggi armonici assolutamente non banali. Quest’ultimo aspetto rappresenta una delle grandi doti di songwriter di songwriter di Dave Grohl, in parte mutuata a sua volta da Cobain, del quale rappresenta, se vogliamo, una controparte più spiccatamente melodica.
Il raffronto con Cobain non è peregrino. Si prenda per esempio anche Nothing at All, nel cui ritornello la melodia di voce atterra su una terza maggiore laddove ci aspetteremmo una minore. Stratagemma armonico ripreso direttamente dal leader dei Nirvana e da canzoni come You Know You’re Right.
Anche Show Me How fa sfoggio di soluzioni armoniche non scontate. Ma soprattutto ci siamo arrovellati (senza successo) per capire chi sia la voce femminile che duetta con Grohl. Le informazioni al momento disponibili non ci forniscono indizi utili.
The Teacher è senz’altro il brano più notevole del disco da un punto di vista della complessità strutturale. Chiamarlo “suite” è troppo? In ogni caso, con i suoi dieci minuti di durata fra prima e seconda parte, si articola con una buona modulazione dinamica, con tanto di falsi finali qua e là. Mentre il finale vero e proprio si preannuncia con una forte distorsione e arriva con un taglio netto, e in questo ricorda moltissimo I Want You (She’s So Heavy) dei Beatles.
I testi
Premettiamo una cosa. Qualche tempo fa, parlando del nuovo album dei Metallica, 72 Seasons, elogiavamo James Hetfield in quanto grande lyricist rock, un aspetto spesso sottovalutato della band. In parole povere: in gran parte della loro discografia, i Metallica possono vantare testi notevolissimi.
Non ci sentiamo di dire lo stesso di Dave Grohl, il cui stile espressivo è certamente efficace ma piuttosto semplicistico. La maggior parte dei versi sono molto generici, appunto da canzone pop, con poco approfondimento lirico.
Non è un caso che i passaggi più brillanti di But Here We Are, dal punto di vista dei testi, siano quelli in cui abbandona tale genericità in favore di un tema preciso, urgente, scottante: quello della perdita dell’amico e compagno di band Taylor Hawkins.
Una sommaria selezione dalla tracklist: “Over it / I think I’m getting over it / But there’s no getting over it”, “Someone said I’ll never see your face again / Part of me just can’t believe it’s true / Pictures of us sharing songs and cigarettes / This is how I’ll always picture you” (Under You); “You showed me how to breathe, but never showed me how to say goodbye”, “Try and make good with the air that’s left / Counting every minute, living breath by breath” (The Teacher).
La traccia conclusiva Rest è obiettivamente un pugno allo stomaco. Un pezzo che inizia con un arrangiamento molto minimale e dimesso per poi farsi distorto all’improvviso. Necessario chiudere questo disco con questo pezzo. Ce lo immaginiamo bene anche in chiusura di live, magari con proiezione di foto di Taylor e singalong del pubblico sulle parole – semplici ma micidiali – “Rest, you can rest now / Rest, you will be safe now”
La copertina di But Here We Are dei Foo Fighters
La tracklist di But Here We Are
- Rescued
- Under You
- Hearing Voices
- But Here We Are
- The Glass
- Nothing At All
- Show Me How
- Beyond Me
- The Teacher
- Rest