Cinque canzoni che vorremmo vedere alla maturità
Oggi i maturandi saranno alle prese con il tema, la prima prova dell’esame di stato: ecco quali brani secondo noi meriterebbero l’analisi del testo
Marracash, foto di Andrea Bianchera
Tra le canzoni legate alla maturità c’è il classicone di Antonello Venditti, Notte prima degli esami, imbattibile e inarrivabile. Oggi gli studenti maturandi, dopo la loro notte, sono difronte alla prima prova. Il tema, uguale per tutti, sul quale ogni anno si fanno pronostici, in particolare sulla traccia dell’analisi del testo. In questo 2025 gli autori scelti dal Ministero sono stati una sorpresa e mezza: Pasolini (davvero imprevedibile) e Giuseppe Tomasi di Lampedusa con Il Gattopardo, autore mai uscito negli ultimi venticinque anni di esami, ma di cui si è parlato tanto ultimamente, complice l’adattamento Netflix.
Noi abbiamo deciso di giocare con le canzoni e abbiamo scelto cinque brani che, secondo la redazione, non sfigurerebbero come allegato A in un’ipotetica prima prova.
Fabrizio De André – La ballata dell’amore cieco (o della vanità)
Una delle prime ballate della canzone italiana e uno dei testi più orrorifici e drammatici di sempre. Faber reinterpreta la poesia Coeur de mère di Jean Richepin. La storia di un amore che oggi definiremmo tossico e che riprende la figura della donna vampiro di Baudelaire, che rappresenta anche una personificazione della vanità (da qui il doppio titolo). Il protagonista «onesto e probo» è pronto a fare tutto, persino uccidere sua madre e se stesso.
Le dieci quartine, scandite da rime baciate e alternate vengono spezzate dal ritornello «tralalalalla tralallaleru» che pesca direttamente dalla tradizione genovese. Anziché essere posizionato tra una stanza e l’altra, come la tradizione della ballata vorrebbe, quel verso è inserito all’interno di otto strofe e contribuisce, insieme alla musica, a creare un contrasto netto tra le parole e il ritmo swing, rarissimo nella sua discografia.
Il finale tragico è un’altra piccola rivoluzione con l’umanizzazione della figura della carnefice: lo sgomento provato. “Ma lei fu presa da sgomento / Quando lo vide morir contento / Morir contento e innamorato / Quando a lei nulla era restato”.
Vasco Rossi – Sally
Nessuno come Vasco Rossi ha saputo cogliere e interpretare le emozioni delle persone nel viaggio della vita, e lo ha fatto con parole tanto semplici quanto universali. Pubblicata nel 1996, Sally è il compimento perfetto di questo concetto. Un brano gigante, uno di quelli che rientrano nel catalogo delle canzoni italiane con la C maiuscola.
Sally infatti non è solo il racconto di una donna volutamente senza volto che ha patito troppo e che dalla vita è già stata punita troppe volte, ma una metafora della ricerca spasmodica di un senso e di un bel finale a questa triste storia che a volte è la vita, di una carezza per non sentire l’amarezza, vagando per le strade di un’esistenza complicata e talvolta crudele senza nemmeno guardare a terra non per distrazione, ma per la stanchezza dopo aver lottato e sofferto tanto, forse troppo. Ma, nonostante tutto, continuando a camminare per arrivare chissà dove.
Caparezza – Argenti Vive
Su Argenti Vive si potrebbe scrivere una tesi per la quantità di spunti e livelli di lettura. Ispirata a un’illustrazione di Gustave Doré della Divina Commedia – tutte le canzoni dell’album vincitore del premio Tenco nel 2014, Museica, erano basate su opere d’arte – è un dialogo impossibile e una rilettura del Canto VIII dell’Inferno, nello specifico dell’incontro tra Dante Alighieri e Filippo Argenti. Nell’opera il poeta, in barca con Flegias e Virgilio nel cerchio degli iracondi, viene interrogato da un’anima senza nome che lui riconoscerà poi come il suo odiato vicino di casa, oppositore politico vicino ai guelfi neri.
La particolarità del canto è rappresentata da uno dei rari momenti in cui Alighieri si fa vincere dalla rabbia e inizia a maledire e spingere sott’acqua l’anima dell’Argenti. Caparezza, su una strumentale metal, si immedesima in Filippo e immagina una possibile risposta. Con un vero e proprio dissing a Dante, tra allitterazioni e paronomasie, il dannato rinfaccia al poeta di non essere poi tanto diverso da lui: «Persino tu mi anneghi a furia di calci sui denti». Argenti Vive racconta il seducente fascino della violenza al quale l’uomo non riesce a resistere e al quale, secondo il personaggio, soccomberà presto, lasciando che sia la «mazza chiodata» a prevalere sulla «rima baciata».
«Anche gli alberi sgomitano per un po’ di sole / Il resto sono solo inutili, belle parole / Sono sicuro che in futuro le giovani menti / Saranno come l’Argenti e l’arte porterà il mio nome». Questa strofa finale, mai come oggi, sembra paurosamente profetica.
Marracash – DUBBI
Chissà se dopo aver aperto le porte del Tenco l’intelligansta per eccellenza del rap italiano riuscirà prima o poi a sfondare anche quelle delle scuole durante la maturità. Di certo DUBBI, tratta dal suo monumentale NOI, LORO, GLI ALTRI, meriterebbe un approfondimento. Un pezzo che trascende il rap stesso e diventa riflessione sulla fama e il senso di vuoto che può lasciare, il successo nella vita pubblica che talvolta non bilancia il “fallimento” in quella personale, l’identità, la salute mentale che forse è roba da ricchi, la paura della morte e quella di non vivere, quella del controllo e di una vita normale – tanto sognata quanto temuta – sugli insegnamenti familiari, le pressioni e i dubbi martellanti. Probabilmente il picco più alto della scrittura di Marracash.
Kid Yugi – Il ferro di Čechov
Il titolo del brano è già un riferimento letterario esplicito. Si tratta infatti un principio narrativo per cui ogni elemento di una storia deve servire a qualcosa, e qualsiasi cosa irrilevante deve essere eliminata: «Se dici nel primo atto che c’è un fucile appeso al muro, nel secondo o terzo atto deve assolutamente sparare. Se non spara, allora non dev’essere appeso al muro». Così come la pistola, nessuna rima di Kid Yugi è irrilevante. Il rapper di Massafra, senza dubbio la penna più alta della sua generazione (e non solo), incastra barre con la precisione di un cecchino e la profondità di un poeta di strada. Autoanalisi, riflessioni sull’identità, sulla morte, la caducità del tempo e della vita umana in contrapposizione all’immortalità dell’arte attraverso il suo lascito: ne Il ferro di Čechov c’è davvero tutto.