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La classifica dei 25 migliori album internazionali del 2025

C’è un po’ di tutto: rap, latin, post-punk, rock e pop. Ecco i dischi stranieri più belli usciti quest’anno

  • Il23 Dicembre 2025
La classifica dei 25 migliori album internazionali del 2025

Dicembre nel mondo della musica vuol dire solo una cosa: le classifiche. Piacciono a chiunque, fanno discutere tutti. Come ogni anno ne stiliamo due, una per i dischi stranieri e una per quelli italiani. Quest’anno la varietà dei generi è ancora più accentuata, ma (spoiler) è stato il latin, in diverse forme, a farla da padrone. Bando alle ciance, è il momento di iniziare: partiamo dalla classifica dei 25 migliori album internazionali del 2025 e dal pop.

25. Ed Sheeran – Play

Dimmi che sei stato in India senza dirmi che sei stato in India. Inizia Ed Sheeran e lo fa con il suo ultimo album Play. Si tratta di un disco frutto di viaggi, incontri e esperienze vissuti in prima persona. L’artista britannico ha trascorso un mese nella “la terra dei colori” dove ha collaborato anche con Arijit Singh, pluripremiato cantante e compositore indiano. All’interno del disco si ritrovano diverse sonorità folkloristiche indiane, persiane e irlandesi che sono tenute insieme da un filo rosso, ovvero quello del pop contemporaneo. Ed non tradisce le sue radici, anzi, rimane fedele a se stesso. Così, da quest’anno ha ufficialmente inaugurato la sua Stereo Era, un capitolo nuovo rispetto alla precedente Mathematic Era segnata dagli album Plus, Multiply, Divide, Equals e Subtract. Le nuove canzoni mettono in risalto maturità e introspezione segnando il suo percorso come essere umano, marito e padre. Un disco dalla sincerità disarmante e dall’apertura più intima. (Rebecca Pavesi)

24. Taylor Swift – The Life of a Showgirl

That’s Life, cantava Frank Sinatra e, quella di Taylor Swift, è proprio (quella) vita da showgirl. Con questo album la cantante originaria della Pennsylvania accompagna i fan in una nuova era che prende, in parte, le distanze dai suoi lavori precedenti. A un orecchio attento, infatti, non possono sfuggire le collaborazioni con Max Martin e di Shellback, ovvero dei due storici produttori della showgirl che hanno contribuito al successo di diverse hit, molte contenute all’interno dell’album 1989. Ma questo non è l’unico richiamo al passato. Molto fanno anche i titoli evocativi e un sound che dipingono Taylor Swift (irrimediabilmente) romantica. Come in ogni progetto discografico, anche in questo si può leggere molto della vita (frenetica) di Taylor Swift alle prese con la scrittura del disco, le registrazioni in studio, il tour e la riconquista dei suoi precedenti lavori. L’album si chiude con l’unico featuring, ovvero quello con Sabrina Carpenter, e gli ascoltatori vengono guidati verso la conclusione con un clap di mani. (RP)

23. Ghost – Skeletá

Band metal dalla straordinaria sensibilità “pop”, i Ghost rappresentano da anni un caso più unico che raro: un gruppo heavy capace di parlare a un pubblico generalista senza perdere credibilità agli occhi dei puristi del genere. Skeletá ribadisce questa formula con sicurezza e ambizione, muovendosi con naturalezza tra riff granitici e melodie catchy, sempre sostenute da una produzione impeccabile. Gran parte del merito va alla scrittura emozionale e all’estetica fortemente teatrale che accompagna ogni fase del progetto. Non sorprende che il pubblico dei Ghost somigli più a una vera e propria community che a una semplice fanbase. Skeletá si impone così come uno dei dischi rock più rilevanti del 2025, capace di sintetizzare passato e presente del metal. Spiccano in particolare la magniloquente Peacefield e i singoli Lachryma e Satanized, brani che condensano alla perfezione l’anima accessibile e oscura della band. (Federico Durante)

22. Inhaler – Open Wide

Nonostante l’affinità generazionale e geografica, il quartetto dublinese continua a concedere poco alla “wave” anglo-irlandese più abrasiva e politicizzata alla Idles o Fontaines D.C., scegliendo consapevolmente un’altra strada. Open Wide predilige infatti soluzioni più ariose e melodiche, costruite su chitarre brillanti, ritornelli immediati e un songwriting che guarda con rispetto alla tradizione senza suonare troppo derivativo. Quando serve, le influenze affondano le radici nel post punk “classico”, filtrato però da una sensibilità spiccatamente pop. Gli Inhaler sembrano qui più sicuri dei propri mezzi, concentrati nel definire un’identità riconoscibile. Open Wide non è un disco che stravolge le regole del gioco, ma le interpreta con gusto e misura, confermando la band come un progetto credibile nel panorama rock contemporaneo. Un piacevole ritorno che lascia la sensazione di trovarsi davanti a un gruppo che ha ancora molto da dire, e soprattutto il tempo giusto per farlo. (FD)

21. Sabrina Carpenter – Man’s Best Friend

Chi è ancora affezionato all’immagine innocente del volto Disney, non ha ancora ascoltato questo album. Sabrina Carpenter si è definitivamente scrollata di dosso il passato e ha abbracciato il presente. Provocatoria, non solo nell’artwork del disco, ma anche nei testi. Squisitamente pop, Man’s Best Friend è fatto da hit che rimangono in testa, così come i paradossali video musicali che accompagnano le canzoni. A cominciare da Manchild che si potrebbe definire come la canzone manifesto che gioca con l’ironia e la libertà. Non c’è da essere rigidi o chiusi, ma raccogliere il guanto della provocazione che Carpenter decide di lanciare, ancora una volta. Perché Man’s Best Friend è divertente, sexy, giocoso, diretto, allegro, intimo e provocatorio. Tutto insieme in un’altalena di mood che vengono cullati da un sound coerente (il tocco di Jack Antonoff è molto presente) che mescola pop, influenze anni ‘70 e, perché no, anche un pizzico di country. (RP)

20. Suede – Antidepressants

“If Autofiction was our punk record, Antidepressants is our post-punk record”. Parola di Brett Anderson, che con questa dichiarazione inquadra perfettamente il senso del decimo album in studio degli Suede: un lavoro che guarda indietro senza nostalgia, rielaborando influenze storiche con una consapevolezza tutta contemporanea. I richiami a Joy Division, New Order e The Cure emergono in modo chiaro, ma non schiacciano mai l’identità della band, che resta riconoscibilissima grazie a quel tocco drammatico e a quella grandeur che da sempre ne caratterizzano il suono. Antidepressants è un disco notturno, inquieto, spesso cupo. Anderson interpreta i brani con la consueta intensità teatrale, mentre l’impianto sonoro alterna pulsioni post-punk ad aperture più ampie e cinematografiche. Fondamentale anche il ritorno alla produzione di Ed Buller, storico collaboratore che produsse il singolo d’esordio The Drowners nel 1992: una scelta che chiude idealmente un cerchio e rafforza il legame tra le diverse epoche della band. (FD)

19. Wet Leg – moisturizer

Quel «Get lost forever» nel ritornello di mangetout è una delle droghe musicali più potenti che siano state prodotte quest’anno. Le Wet Leg, dopo un album di debutto no skip, sono tornate più innamorate e più aperte a nuove sperimentazioni. Se CPR e catch these fists sono ciò a cui ci avevano abituato – e ciò di cui non ci stancheremo mai – sono pezzi come 11:21 e davina mccall a stupire: nel primo Rhian gioca con la propria voce su un ritmo elegante (sullo stile di AM degli Arctic Monkeys), nel secondo ci sono influenze alt-country. Le due frontwoman ricordano quegli amic* sempre con la battuta pronta, capaci di sdrammatizzare su qualsiasi cosa, anche quando nel profondo sentono tutto in maniera esponenziale. moisturizer non è una vera e propria evoluzione, ma uno dei possibili seguiti di un debutto che avrebbe potuto condannare il gruppo a inseguire e che invece l’ha consacrato. (Samuele Valori)

18. Olivia Dean – The Art of Loving

Delicato, chic, retrò al punto giusto. Tanti, se non tutti gli esseri umani, cercano di capire o per lo meno di definire che cosa sia l’amore. Provano a dargli una forma, un colore o magari anche un sapore, aggrappandosi a degli elementi per poterlo descrivere. Olivia Dean non ha la presunzione di avere la risposta in tasca a 26 anni, né l’arroganza di saperne di più. The Art of Loving è un album raffinato ed elegante. Il suo soul-pop con contaminazioni jazz è stata la carta vincente dell’anno, creando un disco gentile in cui le dodici tracce creano un disegno unico come pezzi di un mosaico. La batteria, le trombe e il sax sono al posto giusto. Un discoin bianco e nero, squisitamnete contaminato. Lascia il segno e non solo per i brani di grande successo come So Easy (To Fall in Love) e Man I Need che seguono la scia di viralità cominciata con Dive nel precedente lavoro di Dean, Messy. Con questo progetto discografico Olivia ha alzato l’asticella. (RP)

17. Central Cee – CAN’T RUSH GREATNESS

Se è vero che la bandiera del Regno Unito è ancora simbolo della cultura underground, allora Central Cee mette le cose in chiaro già dall’artwork del suo ultimo album CAN’T RUSH GREATNESS. In questi termini la bandiera sul cappellino dell’artista chiarisce tutto. Un album puramente hip hop con una ricca e corposa produzione alle spalle. Tutto questo lo si può intuire ancora prima di premere il tasto “play” e poi, quando effettivamente lo si fa, la prima traccia – No Introduction – chiarisce ulteriormente l’intento dai primi beat ruvidi e diretti fino ai featuring nel corso delle 17 tracce del disco con anche Young Miko, 21 Savage, Dave, Lil Durk, Skepta e Lil Baby. Le influenze però sono diverse, tanto è vero che Central Cee strizza un po’ l’occhio all’universo latinoamericano, specialmente in Gata. Senza girarci intorno c’è onestà, sicurezza e estrema lucidità nei suoi racconti di vita sull’altalena della fama. Senza essere mai banale o scontato. (RP)

16. Dijon – Baby

La prima volta che lo ascolti non ci capisci nulla. Baby è un disco che si rivela ascolto dopo ascolto e che cambia ogni volta. Ed è proprio questo il bello: ogni volta scopri quel dettaglio che non avevi notato in precedenza. La stratificazione dei suoni e la cura nel modo in cui sono disposti tutti gli elementi ti soprende di continuo. Incategorizzabile perché dopo Baby! e Another Baby! arriva la semi-acustica ed elettronica (Freak it) e poi ancora il pop raffinato di Yamaha. Ma ancora di più per la super accoppiata finale Automatic – il brano più pazzo del disco – e la conclusiva ed emozionate Kindalove. Insieme allo stupendo debut album di Nourished By Time, The Passionate Ones, Baby è uno dei dischi che ha ridefinito un certo tipo di estetica alternative pop e soul del 2025. (SV)

15. Sam Fender – People Watching

Il novello Bruce Springsteen di Newcastle fa di nuovo centro, alzando ulteriormente l’asticella e raccogliendo un successo che, a questo punto della sua carriera, appare tutt’altro che sorprendente. Il riconoscimento come “Best Alternative/Rock Act” ai Brit Awards 2025, il debutto diretto al primo posto della classifica UK e il successivo Mercury Prize sono solo la naturale conseguenza di un percorso costruito con coerenza e personalità. Forte della collaborazione con Adam Granduciel dei The War on Drugs, che ha co-prodotto il disco (e si sente), Fender amplia il suo suono. A livello di songwriting c’è lo sguardo disincantato sulla provincia inglese, c’è l’empatia per i personaggi ai margini, ma anche una maturità nuova nel modo di raccontarli, meno rabbiosa e più consapevole. Sam Fender si conferma così una certezza, non più una promessa, del rock contemporaneo. Prossimo passo Jack Antonoff? Visto l’amore di entrambi per il Boss, più che una boutade sembra una domanda legittima. (FD)

14. caroline – caroline 2

Esistono dei dischi giusti che escono o ti capitano sottomano al momento giusto. caroline 2 è uno di quegli album che inizi ad ascoltare per la curiosità e che ti prende per mano, ti abbraccia, ti coccola e sai che è lì ad aspettarti quando ne avrai il bisogno. L’aspetto paradossale è che il collettivo londinese ha fatto di tutto e di più: Coldplay cover è il frutto di un collage di due registrazioni altrettante stanze diverse, Tell me I never knew that gioca con la voce elettronica di Caroline Polachek creando una sorta di effetto “brat acustico”, mentre Song two introduce sax e clarinetto. Eppure, caroline 2 è molto più accessibile rispetto al debutto che era un po’ penalizzato dalla troppa improvvisazione. Il post-rock incontra il post-punk e viceversa. L’apice si raggiunge in Two riders down dove a tratti sembra di ascoltare i primi Black Country, New Road, ma negli arpeggi di chitarra e nel tono nostalgico convivono gli American Football e i Mogwai. Nostalgia, speranza e crescendo per riprendere fiato. (SV)

13. FKA twigs – EUSEXUA

L’eusexua è una sensazione di gioia intensa grazie alla quale le persone sentono quasi di abbandonare il proprio corpo. È una parola completamente inventata da FKA twigs per il suo terzo (sembra ne siano usciti molti di più) album e pare che questa sensazione sia nata in un periodo in cui frequentava la scena notturna underground dei rave a Praga. Condizionamenti a parte, pare di respirarla davvero in questo album dove la techno non è mai sola, ma mescolata a trip hop e hyper pop. Il risultato è un viaggio dove ci si sente sospesi e in modo decisamente piacevole. (Silvia Danielli)

12. Bon Iver – SABLE, fABLE

E poi, all’improvviso, torna Bon Iver, dopo sei anni dal precedente album a suo nome (i,i del 2019). Quel “torna” non si intende solo in senso meramente discografico, ma anche come pieno ritorno a quelle sonorità che hanno fatto amare al mondo la penna e la voce di Justin Vernon ai tempi, ormai lontanissimi, di Skinny Love. Erano i tardi anni Duemila e il cantautore si impose sulla scena alla maniera classica dei songwriter folk: chitarra, voce e canzoni che parlano al cuore. Poi sono venute le sperimentazioni, l’avant-pop e i progetti collaterali come Big Red Machine. Tutti tentativi apprezzabili, ma più o meno lontani dalla purezza delle origini. Chissà che la collaborazione con Taylor Swift, con il suo “sdoganamento” delle sonorità indie pop con gli album Folklore ed Evermore, non abbia contribuito a fargli fare pace con il sound che l’ha portato al successo mainstream. SABLE, fABLE è un album essenziale, appassionato, dove Bon Iver fa una sintesi delle tante anime artistiche espresse nella sua carriera in un disco che sa di ritorno a casa. (FD)

11. Geese – Getting Killed

Sono la band dell’anno, senza ombra di dubbio. Dopo due primi album molto diversi tra loro, arriva questo terzo che è la summa e l’evoluzione del loro stile. Getting Killed è un instant classic: distopico, emotivo e perfettamente in linea con i tempi che corrono, come dimostrano i testi surreali di 100 Horses e Trinidad. La grandezza di questo disco sta anche nella capacità del giovanissimo frontman Cameron Winter di riuscire portare nel mondo della sua band parte di ciò che ha conquistato e scoperto con il suo stupendo album solista Heavy Metal. In più la produzione di Kenny Beats (IDLES, slowthai) li ha resi meno retro rispetto a 3D Country. I Geese sono riusciti a creare una sorta di culto: citati da Cillian Murphy e Nick Cave, ma soprattutto ascoltati dalle giovani generazioni come si è visto nelle immagini virali del loro release a New York. E Au Pays Du Cocaine è uno dei brani che hanno segnato il 2025. (SV)

10. Princess Nokia – GIRLS

“I love being a girl, there’s nothing else in this world I’d want to be” dice dolcemente Princess Nokia alla fine di Matcha Cherry, la traccia più eterea di Girls, il suo ultimo album uscito a ottobre, e – nonostante tutto – non potremmo essere più d’accordo. Nel 2025 la rapper di New York non ha scritto solo un disco, ma un manifesto della girlhood contemporanea, quella incazzata, pronta a celebrare il funerale (purtroppo ancora lontano) della società patriarcale che ogni giorno la opprime, quella che spera nella caduta dei politici e nella distruzione degli uomini che alimentano le mostruosità di questo mondo (Period Blood). Girls è un album feroce, rabbioso, impetuoso, scabroso come quel sangue mestruale che da tabù Princess Nokia trasforma in orgoglio – tanto da essere ben visibile in copertina -, a tratti violento, comprensibile solo a chi vive ogni giorno quel meraviglioso e lungo film dell’orrore che è essere una ragazza oggi. (Greta Valicenti)

9. Tyler, The Creator – DON’T TAP THE GLASS

La reazione iniziale comune è una e una soltanto: lo spiazzamento. A soli sei mesi (e poco più) di distanza da un album importante come Chromakopia, Tyler, The Creator, nel bel mezzo del tour, pubblica a luglio un album a sorpresa “per far ballare”. Sembra un esperimento, dove i suoni electro anni ‘80 un po’ distorti delle dieci tracce autoprodotte hanno il sopravvento. E un esperimento lo è senz’altro. Innanzitutto quello di spingere le persone a mollare il cellulare per – appunto – mettersi a ballare, come Tyler stesso dice all’inizio del primo brano. E pian piano, canzone dopo canzone, anche se non si tratta di un concept album, diventa impossibile lasciare l’ascolto. (SD)

8. Turnstile – NEVER ENOUGH

Il 2025 verrà ricordato come l’anno in cui i Turnstile hanno raggiunto il quasi-mainstream. Merito di un album che, rispetto all’acclamato GLOW ON, si muove in un equilibrio sottilissimo tra hardcore punk e ritornelli melodici. Se nel precedente i secondi erano inseriti in brani distanti dalle chitarre distorte (per esempio ALIEN LOVE CALL con Blood Orange), qui la band statunitense riesce a farli convivere. LOOK OUT FOR ME si chiude con una coda elettronica da brividi, la titletrack ha un ritornello che rimane in testa, DREAMING gioca anche con gli ottoni e I CARE è scritta da Dio. Dalla loro non hanno solo le nomination ai Grammy, ma anche uno dei videoclip più iconici dell’anno, quello di BIRDS, che prende vita alla fine di ogni loro concerto. Chi c’era all’Alcatraz lo scorso novembre sa. Generazionali. (SV)

7. Mac Miller – Balloonerism

Ci sono dischi che ci ricordano quanto gli artisti che li hanno prodotti e che ci hanno lasciato troppo presto avrebbero avuto ancora tanta magia da regalarci e un potenziale infinito di evoluzione. Ecco, Balloonerism di Mac Miller è senza dubbio uno di questi. Il secondo album postumo del rapper di Pittsburgh scomparso prematuramente nel 2018 è un viaggio onirico che sembra catapultarci direttamente nello studio in cui è stato registrato (più di 10 anni fa, contemporaneamente alla realizzazione di Faces) con le incursioni di nomi come Thundercat e Taylor Graves. I brani conservano ancora quelle imperfezioni che rendono il tutto estremamente autentico e che restituiscono l’intenzione sperimentale che Mac Miller stava portando avanti (annunciandone l’uscita ufficiale dopo alcuni leak trapelati negli scorsi anni, i familiari di Mac dichiareranno che Balloonerism era un album a cui l’artista teneva moltissimo), e ascoltati oggi fanno venire i brividi. “What does death feel like? Why does death steal life?”, si chiede ossessivamente in Rick’s Piano. “I’m not a kid no more”, dice in Do You Have A Destination? prima di rimanere ragazzo per sempre. Le risposte a queste domande non le troveremo mai, ma ciò che sappiamo è che la morte ci ha rubato uno dei più grandi talenti dell’ultimo millennio. Non ti dimenticheremo mai Mac. (GV)

6. Clipse – Let God Sort Em Out

La storia ce lo insegna: le reunion possono essere un fallimento su tutta la linea o un trionfo in grado di scrivere un nuovo capitolo. La decisione dei Clipse – il leggendario duo di Virignia Beach – di tornare insieme, non ha solo ridato lustro ad un’heritage incredibile, ma ha rappresentato la cosa migliore successa all’hip hop nel 2025. Sebbene Pusha T e Malice avessero interrotto la loro storia 16 anni fa con Til The Casket Drops, l’alchimia sul beat da allora non è cambiata. Let God Sort Em Out è un disco monumentale, sorretto dalle produzioni di Pharrell – che in onore dei vecchi tempi ha plasmato un suono sartoriale – e dalle liriche chirurgiche e sottili dei Clipse, accompagnati da un parterre di ospiti stellari come Kendrick Lamar, Nas, Tyler, The Creator e John Legend nella struggente The Birds Don’t Sing, dedicata ai genitori scomparsi e portata persino in concerto in Vaticano. Due parole per descrivere questo album? Culturalmente appropriato. (GV)

5. Dave – The Boy Who Played the Arp

Una delle parole del 2025 è stata “biblical”: “biblical” è stata la reunion degli Oasis, e biblico è anche il riferimento scelto da Dave per il suo terzo attesissimo (e acclamatissimo, ma non poteva essere diversamente dopo due capolavori come PSYCHODRAMA del 2019 e We’re All Alone In This Together del 2021) album che richiama il momento in cui Saul convoca il pastore Davide per suonare l’arpa per allontanare gli spiriti maligni che lo tormentavano e riconnettersi con Dio. In The Boy Who Played The Harp il rapper britannico porta la sua narrativa, la sua scrittura e i suoi dissidi su se stesso, la società che lo circonda e l’industria musicale a livelli altissimi. I flussi di coscienza di My 27th Birthday e della title track colpiscono dritti come uno schiaffo senza però perdere la delicatezza, l’accoppiata con James Blake in History e Selfish tocca corde profondissime, il passaggio di testimone con Kano in Chapter 16 è commovente, il racconto della violenza di genere in Fairchild con Nicole Blakk spiazzante e dolorosissimo. Una vera e propria opera che eleva ancora una volta la scena UK un gradino sopra le altre. (GV)

4. Blood Orange – Essex Honey

Come si raccontano il dolore, la memoria, la nostalgia e la perdita? Blood Orange lo ha fatto con un disco bellissimo, malinconico come i cieli grigi dell’Essex e dolce come l’abbraccio di una madre di cui si conserva stretto il ricordo dopo il lutto. Atmosfere rarefatte, sospese quasi in un non luogo, che riconnettono chi ascolta col proprio io più intimo grazie a tracce di rara delicatezza e emotività. L’apertura con Look At You è maestosa e commovente (“Since you died, it hasn’t stop raining”), la chiusura con I Can Go insieme a Mabe Fratti e Mustafa l’ultimo finalmente riappacificato saluto a un passato che si può lasciare andare senza però dimenticare. Nel mezzo, brani straordinari come Vivid Light, Mind Loaded con Lorde, Caroline Polachek e il già citato Mustafa, The Last of England e The Train. Immenso. (GV)

3. Little Simz – Lotus

Little Simz continua ad evolversi, senza deludere minimamente, con il suo sesto lavoro. Anche dopo un album sorprendente come Sometimes I Might Be Introvert, il quarto del 2021. Uno stile ormai riconoscibilissimo quello di Simbiatu Abisola Abiola Ajikawo, di Islington, quartiere a Nord di Londra, con origini nigeriane, sia per il suo flow che per i beat scelti. Prodotti, per la prima volta, non dal fido Inflo, contro il quale ha dovuto affrontare anche una battaglia legale raccontata nel primo brano Thief, ma da Miles Clinton James. Suoni stratificati che riescono ad unire l’hip hop al jazz all’afrobeat, insieme a testi a volte crudi e diretti, sicuramente molto sinceri e spesso molto profondi. Con feat di prim’ordine, da Michael Kiwanuka a Sampha, da Obongjayar a Lydia Kitto. Una meravigliosa conferma. (SD)

2. Bad Bunny – DeBÍ TiRAR MáS FOToS

L’album di Bad Bunny, uscito a inizio gennaio, segna il 2025 in maniera indelebile per una lunga serie di motivi. Innanzitutto, con questo suo sesto lavoro, Benito Antonio Martínez Ocasio rende ancora più pop il suo sound latin (reggaeton certo, ma anche dembow e salsa & plena) nel senso che davvero è riuscito a farlo arrivare a chiunque, risultando l’artista più ascoltato al mondo su Spotify. Con una cover diventata immediatamente iconica grazie all’immagine di due banali sedie di plastica replicata da moltissimi.

Un titolo che sembra strizzare l’occhio ai tempi che corrono ma in realtà tira solo una sferzata: “Avrei dovuto scattare più foto”. Ma quante ancora dato che oggi non facciamo altro con lo smart phone? Con il termine foto, invece, il rapper portoricano intende il fermarsi a pensare a quello che ci sta davvero succedendo in un determinato momento, senza correre (o scrollare) da un’altra parte. E poi una dichiarazione d’amore verso il suo Paese, che è decisamente più complessa di quello che ci si potrebbe aspettare. Perché il suo Paese è Porto Rico e, al di là dei suoni vintage anni ‘70 che vengono recuperati, ha un rapporto travagliato e complesso con gli Stati Uniti, soprattutto dell’era Trump. (SD)

1. Rosalía – LUX

È musica classica o non è musica classica? Al di là delle polemiche dei puristi, di sicuro LUX è un classico. Un punto di svolta nella scena pop mondiale. Come possiamo definire un album che contiene la London Symphony Orchestra, riferimenti alla musica sacra, tredici lingue diverse e soprattutto riesce a far girare tutto in maniera assolutamente naturale e a farlo risultare contemporaneo? Rosalía continua nella sua ricerca incessante del suono, dell’utilizzo della voce perfetto per lei, dei temi che rispondano alle domande più profonde. Non sceglie scorciatoie, anzi: con la sua nuova estetica monacale, si inerpica su una montagna difficile da scalare, con il rischio di scivolare nel kitsch. Ma invece lei arriva in vetta. Senza eguali. (SD)

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