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Dieci cose che forse non sapete di “Dummy”, il primo disco dei Portishead

La misteriosa campagna di marketing a Londra, l’influenza del cinema e dell’hip hop, il presunto furto di Tricky: il 22 agosto 1994 usciva l’album più rappresentativo di un intero canone

Autore Billboard IT
  • Il22 Agosto 2024
Dieci cose che forse non sapete di “Dummy”, il primo disco dei Portishead

I Portishead

Il 22 agosto 1994 usciva Dummy, il disco d’esordio di tre perfetti sconosciuti – Beth Gibbons, Geoff Barrow e Adrian Utley – destinati a diventare molto più famosi dell’anonima cittadina britannica da cui prendevano il nome: Portishead, nei pressi di Bristol – un dettaglio non da poco, visto che di lì a breve esploderà il cosiddetto Bristol Sound, di cui i Portishead saranno alfieri insieme a Tricky e Massive Attack. Dummy viene generalmente considerato come il vertice assoluto di una santissima trinità, con gli altri due esordi locali, Blue Lines (1991) e Maxinquaye (1995), a formare la base del genere passato alla storia come “trip-hop”.

La copertina di “Dummy” dei Portishead

Il termine, originariamente nato sulle pagine di Mixmag, va a indicare un’etichetta dalle maglie larghe, sotto le quali si cela una miscela di stili musicali che fonde elementi hip-hop, jazz, soul, dub e acid house, in un’esperienza sonora unica, oscura e affascinante, caratterizzata da ritmi lenti e atmosfere notturne.

A trent’anni di distanza, ecco allora dieci curiosità che forse non sapevate su Dummy dei Portishead, il disco più rappresentativo dell’intero canone. 

Dieci curiosità su “Dummy” dei Portishead

1. La misteriosa campagna di marketing a Londra

I Portishead erano un “gruppo da studio” che inizialmente si rifiutava di suonare dal vivo, con una cantante che preferiva non rilasciare interviste. Non esattamente il massimo per fare promozione. Essendo l’alone di mistero un loro elemento chiave, il responsabile della campagna di marketing, Tony Crean, pensò di sfruttare al massimo questo fattore, mettendo in atto una serie di trovate bizzarre, in grado stimolare la curiosità della gente intorno alla band. Così, una serie di manichini (“dummies”) dipinti di blu e contrassegnati solo dalla lettera “P”, sono stati collocati in diversi punti visibili di Londra, attirando l’attenzione dei media nazionali e della squadra antiterrorismo che, a quanto si dice, sospettava la presenza di ordigni esplosivi.

Misteriosi cimeli sono stati distribuiti nei locali di Londra e una “P” gigante è stata proiettata sul massiccio edificio dell’MI6 – l’equivalente britannico della CIA – che si trova in un’impenetrabile facciata art déco sulla riva del Tamigi. Il tecnico del suono Dave McDonald ricorda l’energia di Crean: «Era brillante – era pazzo. Cercavamo di tenerlo a freno…faceva cose che non avevo mai visto prima, come andare in giro per i club e i pub, lasciando una scatola di fiammiferi con la scritta “P”, del resto, se continui a mostrare qualcosa senza dire alla gente di cosa si tratta, alla fine penseranno: “Ma di cosa diavolo si tratta???”».

2. Mysterons è una citazione di una serie inglese degli anni ‘60

Fin dal titolo, la traccia di apertura sembra insistere su quest’aura di mistero che avvolge tutto il disco, qui addirittura esplicitata in un verso metaforico piuttosto eloquente: “Questo oceano non sarà afferrato”. Ma Il titolo della canzone, in realtà, deriva da Captain Scarlet and the Mysterons, una serie televisiva di fantascienza, apparentemente per bambini, ma dai toni oscuri, che aveva per protagonisti dei pupazzi animati attraverso una tecnica denominata “Supermarionation”. I Mysterons erano i cattivi della serie: degli alieni disincarnati le cui voci rimbombavano alle frequenze più basse, come intonate attraverso un megafono.

In maniera simile, il brano contiene un campione vocale “grattato” all’inizio della canzone: è una voce maschile profonda e risonante che dice solo “Portishead”, ma è rallentata, logorata e manipolata al punto da risultare pressoché incomprensibile, quasi un rumore di fondo astratto o appunto “alieno”. Inoltre, la colonna sonora della serie, realizzata da Barry Gray, era caratterizzata dalla sperimentazione di suoni elettronici, compreso l’uso di uno strumento precoce come l’Onde Martenot, che con le sue oscillazioni inquietanti assomiglia molto al theremin usato in Mysterons.

3. L’influenza del cinema e il cortometraggio ‘To Kill A Dead Man’

Le canzoni di Dummy favoriscono una serie di associazioni cinematografiche, soprattutto con il genere noir e i film di spionaggio degli anni ’60 e ‘70. Alcuni riff della chitarra di Utley, ad esempio, alludono al tema di James Bond di John Barry, mentre Sour Times mette in loop un sample esteso del tema di Lalo Schifrin – Danube Incident – scritto per la colonna sonora di Mission: Impossible.

Le inclinazioni cinematografiche della band sono confermate dal fatto di aver realizzato un vero e proprio cortometraggio, To Kill a Dead Man, prima dell’album stesso. Si tratta di un film in bianco e nero di dieci minuti, girato dal regista Alexander Hemming, ma scritto, interpretato e musicato dalla band sulla base delle loro principali influenze: in sostanza, è una breve storia di inganno e vendetta, che è servita più che altro come fonte d’ispirazione per l’atmosfera generale del disco, oltre che per fornire materiale visuale al video di Sour Times e altri fotogrammi a scopi promozionali, compresa la copertina dell’album.

4. L’influenza dell’Hip-Hop e i campionamenti “rifatti” in studio

Concettualmente le canzoni di Dummy dei Portishead sono state “costruite” come molti brani hip-hop, ovvero attraverso l’arte progressivamente sempre più ingegnosa del campionamento: la prima parte del lavoro consisteva nel crate-digging, ovvero nella ricerca ossessiva di oscuri vinili che potessero contenere qualche break strumentale da riproporre in loop, come un beat compulsivo e propulsivo. Una volta trovato, questo poteva essere modificato e manipolato attraverso varie tecniche di accelerazione, rallentamento, pitch-shifting, filtraggio, ecc., in modo da accordarlo ad altri sample, privilegiare determinati aspetti ed evitare l’immediato riconoscimento del campione di partenza.

L’intuizione dei Portishead fu quella di procedere attraverso la produzione di campioni propri: in pratica, una volta individuati, questi venivano risuonati, modificati e registrati in studio da Barrow e Utley insieme ad altri musicisti, molti dei quali – Clive Deamer, Jim Barr, John Baggott, Gary Baldwin e Andy Hague – divennero in seguito parte integrante della band allargata durante le tournée.

5. Il suono del vinile

Il processo di registrazione di sample “propri” era molto più complicato del campionamento standard. Per la band era fondamentale preservare l’impronta sonora dei vecchi vinili, in modo che i campioni “fatti” suonassero altrettanto invecchiati e autentici di quelli “trovati”. “Incorporare il suono del vinile è importante quanto gli strumenti che suonano” ha dichiarato Barrow nel 1997. McDonald ha raccontato cosa succedeva nel dettaglio: «quando si riceveva un acetato appena stampato dei sample della band, passavi il giorno successivo, o un paio di giorni, con questo vinile sul giradischi – e quasi come un tornio, Geoff li “tagliava” avanti e indietro per consumare il disco in modo da creare un’età, in modo che suonasse davvero autentico e vecchio. Ricorderò sempre quel processo. Il processo d’invecchiamento. Come una buona bistecca».

Questi artefatti del vinile sono presenti in tutto Dummy: in It’s a Fire, ad esempio, il movimento meccanico del giradischi è quasi palpabile, soprattutto durante la prima strofa. Barrow ha descritto in numerose interviste le prime reazioni del pubblico a questi suoni: «la gente lo riportava da Woolworth’s perché era scricchiolante. Il che è esilarante. Riportare indietro i CD perché hanno lo scricchiolio del vinile, Hei c’è qualcosa che non va nel mio CD!».

6. Contro il successo commerciale

Contro ogni aspettativa, la musica sperimentale di Dummy scalò lentamente le classifiche del Regno Unito, raggiungendo la posizione N. 2 e vincendo il prestigioso Mercury Prize nel 1995, davanti a Oasis e PJ Harvey e piano piano la musica dei Portishead si insinuò dappertutto. In tv, nei film, nelle radio, ma anche e soprattutto nei bar e nei locali, come “musica di sottofondo”.

Nel 2010 Geoff Barrow dichiarò che «la cosa più strana, e più fastidiosa, è questa storia del “chill-out” che ne è scaturita, Dummy come musica chill-out, yuppie, da scopata. Non doveva trattarsi di questo. Non era qualcosa con cui rilassarsi. Doveva essere piuttosto dura, alternativa e rumorosa». Questo potenziale easy-listening era qualcosa contro cui la band aveva lottato fin dall’inizio. Barrow ricorda che, mentre il gruppo aggiungeva le parti di chitarra a Glory Box, «ci chiedevamo: “Cosa stiamo facendo?”. Sembrava così orribilmente commerciale. Odiavo la musica commerciale».

Le dimensioni del successo turbarono anche Beth Gibbons: «Scrivi canzoni e speri di comunicare con la gente – metà del motivo per cui le scrivi è che ti senti incompreso e frustrato dalla vita in generale. Poi si ha una sorta di successo e si pensa di aver comunicato davvero con le persone, ma dopo si comincia a pensare di non aver comunicato affatto – tutto si è trasformato in un prodotto, quindi ci si sente ancora più soli di quando si è cominciato».

I Portishead avevano prodotto un album che nella sua stessa architettura complessa e stratificata si opponeva all’ascolto in sottofondo. Eppure era diventato proprio quello: un accompagnamento per le conversazioni e per le cene, una rappresentazione del consumo borghese e convenzionale. “La nostra musica era semplicemente mal interpretata”, ha detto Geoff Barrow nel 2008, “così terribilmente mal interpretata”.

7. Musica per scopare

Una delle (cattive?) interpretazioni più comuni è quella che la vede come “musica per scopare”. Giusto per dare un’idea, fino a qualche anno fa esisteva un gruppo Facebook chiamato “I Love having sex to PortisHead”, accompagnato da una descrizione che chiariva in modo utile la premessa: “Per chi ama il sesso con i Portishead in sottofondo”. Tra le varie espressioni associate a Dummy su Twitter ci sono parole come Orgasmic, Orgasmos, #fuckmusic, sexy music, sexmusic, sensual, música para striptease ecc. Senza contare i vari thread su Reddit con titoli come “What Portishead song do you think is the most seductive and sexy?” oppure quelli dedicati ai consigli sulla musica migliore per fare sesso che vedono citare le canzoni di Dummy con una frequenza ineguagliata persino da Marvin Gaye.

Difficile spiegare razionalmente le ragioni di questa associazione (c’è un thread di Reddit anche per questo: “Why is Portishead seen as sex music?”), ma uno dei motivi potrebbe essere l’estrema intimità della voce di Beth Gibbons, che in alcuni momenti è registrata così da vicino da sentirla sospirare o riprendere fiato, nel finale di It Could Be Sweet, ad esempio, è quasi “oscena”: si sentono le sue labbra, la sua bocca.

8. Il brano di Natalie Imbruglia erroneamente accreditato ai Portishead

Leave Me Alone è un brano di Natalie Imbruglia tratto dall’album Left of the Middle del 1997. La canzone è circolata online, e in alcuni casi circola ancora, con un’errata attribuzione dei crediti che lascia intendere un coinvolgimento dei Portishead; facile cascare nell’inganno perché il brano ricorda in effetti molto da vicino le canzoni di Dummy. Ci sono diversi elementi che costituiscono dei veri e propri marchi di fabbrica, come lo schiocco e il crepitio del vinile, il tremolio della chitarra, un campionamento indistinto e retrò, una linea di basso lenta e una voce intima e ravvicinata.

La verità però è un’altra: il brano è stato prodotto e in parte scritto da Andy Wright, che aveva lavorato a Protection, il 2° album dei Massive Attack, ed era quindi piuttosto avvezzo a certe sonorità. La chitarra tremolante, ad esempio, non era un tentativo volontario di riecheggiare il sound dei Portishead, ma un residuo del lavoro che Wright stava facendo – proprio poche ore prima di incontrare N. Imbruglia – per proporre una colonna sonora commerciale nello stile del pioniere della chitarra da spiaggia Dick Dale.

9. Il presunto furto di Tricky

Il singolo di maggior successo di Dummy dei Portishead – Glory Box – contiene un sample della canzone di Isaac Hayes, Ike’s Rap II, tratta dal suo doppio album Black Moses del 1971. Sembra che il loop sia in realtà un amalgama di più momenti del primo minuto del brano, cuciti insieme senza soluzione di continuità per evitare la voce di Hayes e per far sì che l’andamento degli archi salga e scenda con grazia. Il campione è oggettivamente irresistibile e comanda la canzone nonostante i tentativi della chitarra di Adrian Utley di portarla altrove. È talmente irresistibile che secondo alcuni è stato “rubato” da Tricky.

Lo stesso sample di Ike’s Rap II, infatti, è poi apparso nella sua Hell is Round the Corner, pubblicata nel 1995. Secondo alcune voci, Geoff Barrow fece ascoltare a Tricky un demo di Glory Box in un’auto fuori da una festa di Natale organizzata dalla Fruit, la società di management che rappresentava entrambi. La band si è mostrata diplomatica quando gli intervistatori hanno chiesto spiegazioni sull’apparente coincidenza; in seguito, è stato riferito un non precisato “incidente” durante la cerimonia dei Mercury Music Awards, dove erano entrambi in lizza. Ma a parte questo il mistero permane.

10. L’epistola di Giuda: The blackness of darkness forever

Wandering Star, collocata a metà di Dummy rappresenta il cuore pulsante dell’album dei Portishead. È una canzone sulla solitudine: in un certo senso persino il suo testo è solo, cioè isolato sopra il pulsare martellante dell’arrangiamento. Il ritornello è un estratto della traduzione di King James dell’Epistola di Giuda, che dichiara vendicativamente il destino degli uomini e degli angeli apostati, paragonando il loro esilio eterno alle traiettorie erranti dei pianeti: “Sono nuvole senz’acqua, portate dai venti; alberi il cui frutto appassisce, due volte morti, strappati dalle radici; onde impetuose del mare, che schiumano la loro stessa vergogna; stelle erranti, alle quali è riservato il nero delle tenebre per sempre”.

“Wandering stars, for whom it is reserved, the blackness of darkness forever”: il verso finale, il più oscuro, viene ricontestualizzano abilmente nel brano dal canto sofferto di Beth Gibbons: come nota R.J. Wheaton nel suo saggio illuminante sul disco, il tono non è più quello di un’iraconda ammonizione dei malfattori, quanto piuttosto quello di un’evocazione luttuosa della condizione di esilio, ovvero di una solitudine inconsolabile. La canzone diventa così una richiesta di vicinanza e conforto: “Per favore, potresti rimanere un po’ per condividere il mio dolore?”.

Articolo di Andrea Pazienza

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