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Le sette vite di Doja Cat agli I-Days Milano

Zero playback, una tenuta del palco da vera protagonista e un live dalle mille sfaccettature. Un concerto rap, urban e, a tratti, grazie a una band ispiratissima, persino rock. E poi lei. Sì, Amala è una performer totale

Autore Samuele Valori
  • Il28 Giugno 2024
Le sette vite di Doja Cat agli I-Days Milano

Foto di Stefano Masselli

Arrivando all’Ippodromo di San Siro in testa si alternavano pensieri contrastanti. Le premesse per assistere a un live unico nel suo genere erano basate sui numerosi video circolati sui social delle date dell’ultimo mese. Eppure, forse per colpa di un pregiudizio infondato, qualche perplessità ancora sopravviveva. Sono bastati i primi minuti di AKNOWLEDGE ME a Doja Cat per spazzare via i pochi e inopportuni dubbi rimasti: la scenografia industriale del palco, i covoni di finto grano che sorreggevano i componenti della band e la sua presenza magnetica hanno fatto scomparire Milano. Per tutta la durata del concerto non è esistita altro che lei. Fin da subito, con un cappellino bianco e un bicchiere in mano ha calamitato l’attenzione di tutti.

Foto di Stefano Masselli

Un live felino

La similitudine potrebbe sembrare scontata per via del nome d’arte, ma è innegabile che il modo di stare sul palco di Doja ricordi quello di un gatto. Si muove in modo felino da destra a sinistra, ammicca, sembra dialogare col pubblico, si allunga sul palco stendendosi e il tutto senza mai smettere di rappare. L’aspetto che, forse perché abituati ad artisti americani che utilizzano playback e tracce preregistrate, stupisce più di ogni altra cosa è la sua abilità come performer. A Doja Cat non manca di certo il fiato. L’unico supporto sono i quattro coristi – bravissimi nel garantire la componente soul – che ballano e fanno su e giù dalle balaustre.

L’inizio del live è sembrato quasi un concerto rock. La carica di WYM Freestyle e Demons passa, oltre che dalla grinta dell’artista, dalla verve della band. La batteria e la chitarra elettrica sono state protagoniste in varie fasi del concerto, con tanto di assoli. Il contrasto tra l’eleganza minimale – anche dell’outfit – di Doja Cat e l’anima delle sue esibizioni è qualcosa che fuoriesce dai confini di qualsiasi categorizzazione. Durante Tia Tamera scende una corda dall’alto e l’artista ci regala il primo twerk della serata, ma non è una sensualità che sa di già visto. È inserita perfettamente in un contesto altro che ha senso solo nell’universo di Amala.

Foto di Stefano Masselli

Uno spettacolo per il pubblico

Più o meno a metà concerto, in uno dei rari momenti in cui diminuisce la frequenza delle fiammate e dei fuochi d’artificio, il palco prende vita. Doja mette in mostra un’altra delle sue sfaccettature, interagisce con le piattaforme sospese e inizia un continuo saliscendi. Prima PISS dalla balaustra, poi Gun e OKLOSER, fino a una delle poche canzoni tratte dai suoi primi album: Get Into It (Yuh).

È qui che la rapper distrugge uno degli ultimi pregiudizi sul suo conto. Il suo rapporto con il pubblico è sempre stato distaccato. In alcuni casi quasi conflittuale come quando criticò il nome che si era data la sua fanbase. L’aria di Milano, o semplicemente l’atmosfera del live, ispira Doja Cat. Ecco che allora allunga il microfono al pubblico durante Say So e Balut e addirittura, aggiustandosi gli occhiali sul naso, mima il gesto – “troppo italiano” come direbbe Stanis – delle mani che indicano “Ma che dici?”.

Foto di Stefano Masselli

L’abilità da performer totale emerge però con Attention e Streets, due tra i momenti migliori dell’intero concerto. Il brano di Hot Pink è introdotto da una sezione gospel che lo trasforma completamente. Da lì, fino alla fine del live, Doja rimarrà sospesa sulla scenografia che ricorda in parte quella dell’esibizione di The Way You Make Me Feel di Michael Jackson nel doc This is It. Un’altra scelta che sembra fatta per accontentare il pubblico e per farsi vedere.  Di certo non soffre di vertigini e l’imbragatura sembra quasi limitarla. D’altronde, si sa, ai gatti piace stare in alto e in equilibrio sul baratro.

La doppietta finale Paint The Town Red e Wet Vagina chiude l’ora e venticinque di concerto. Breve e intenso, ma la durata in questo caso non è un aspetto negativo. Non ci sono state pause, in fin dei conti. Doja Cat ha salutato Milano e i suoi fan con un bacio, sfilandosi gli occhiali per la prima e unica volta durante tutta la serata. Un gesto che interpretiamo come una dichiarazione d’amore. E poi, come ormai ci hanno abituato gli artisti d’oltreoceano, se ne è andata nel retro senza troppi proclami, lasciando il palco alla band. L’outro rock e i fuochi hanno chiuso un’esperienza quasi mistica che ci ha confermato quanto sia sbagliato avere dei pregiudizi e che sì, i gatti hanno numerose vite. Ognuna diversa dall’altra.

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