Buon compleanno “Dookie”, che tu possa restare sempre giovane
Il 1° febbraio compie trent’anni tondi un album diventato un piccolo classico del rock. Un dovere ricordarlo, un piacere riascoltarlo. In questa puntata di Soundcheck non risparmiamo in nostalgia
Cominciai il liceo (classico, Beccaria, Milano bene ma alla mano) nel 2003. In quell’epoca già pienamente digitale ma anteriore all’avvento dei social e dello streaming, la musica e la cultura viaggiavano ancora lentamente, con ritmi tutti loro. Ovviamente c’era l’hype per i generi del momento come nu metal da una parte e pop punk dall’altra, ma al tempo stesso gran parte della cultura musicale “alternativa” degli adolescenti di inizio anni Duemila si riferiva a una decina di anni prima. Non se ne meravigliava nessuno, era così e basta.
Due band su tutte: Nirvana e Green Day. I loro nomi e le loro copertine iconiche campeggiavano su quei grandi diffusori di cultura visual ante-social che erano le t-shirt dei gruppi rock. E in effetti il mio primo contatto con Dookie dei Green Day fu squisitamente visivo: sulle magliette degli studenti più grandi faceva capolino regolarmente la cover del disco, che aveva in sé qualcosa di magnetico. La confidenza con quell’immagine era tale che avevi l’impressione di conoscere la band anche senza averla mai ascoltata attivamente.
Pop punk nella migliore accezione
Oltretutto non bisognava essere “punk” per amare i Green Day (a parte il fatto che i punk, quelli veri, erano spariti dalla circolazione da un pezzo). I Green Day di Dookie parlavano a tutti. Non erano i punk antisociali e “pericolosi” degli anni ’70, e neanche musicalmente edgy come i contemporanei Rancid e NOFX.
Dal modo in cui si vestivano a quello in cui si esprimevano nelle canzoni, tutto in loro lasciava trasparire il fatto che erano dei figli annoiati della middle class che cercavano un’evasione nella musica. I Green Day erano come noi. “Pop punk” nella definizione più genuina e letterale dell’espressione, prima ancora di ogni considerazione sul sound della band.
Elogio della lentezza
All’inizio si parlava di lentezza. Da questo punto di vista, è bene anche ricordare che – a differenza di quanto potrebbero pensare molti – Dookie non era l’album d’esordio dei Green Day, e neanche il secondo. Era addirittura il terzo disco della band, dopo 39/Smooth del 1990 e Kerplunk del 1991, entrambi pubblicati dalla Lookout! Records, label seminale della scena punk californiana di quegli anni.
Perché il successo arrivò proprio allora e non prima? Perché era la combinazione felice di due fattori determinanti. Il primo era il passaggio a Reprise Records, dunque a una major (la label faceva e tuttora fa parte di Warner Music Group). Tradotto in termini pratici: più budget, più promozione, più contatti influenti nel mondo delle radio e dei festival.
Il secondo, dall’esito meno prevedibile in partenza, era il sodalizio artistico con un nuovo produttore, Rob Cavallo. Non esattamente – perdonate il gioco di parole – un cavallo sicuro, non un top producer con un curriculum che parla da sé, bensì un giovane discografico rampante (oltre a produrre, lavorava per l’A&R di Warner Music). Ripulendolo da certe asperità dei primi due album e rendendolo più radio-friendly, Cavallo fu l’artefice di quel sound che poi sarebbe diventato il marchio di fabbrica definitivo dei Green Day.
Insomma, Dookie fu il risultato di un lento processo di crescita dei Green Day come band, che passarono in maniera del tutto organica dal circuito underground della scena punk di San Francisco ai primi album al grande successo mondiale. Ma provateci voi oggi, nell’epoca dello streaming, a trovare qualcuno disposto ad aspettare tutti quegli anni prima di assistere al breakthrough di un artista. Altri tempi.
Il sound granitico di Dookie dei Green Day
Dookie dei Green Day è uno di quei dischi rock straordinariamente compatti, con un sound granitico e coerente in blocco dall’inizio alla fine, al pari di album come Back in Black degli AC/DC e l’esordio omonimo dei Rage Against The Machine (mutatis mutandis, s’intende). Merito degli arrangiamenti senza orpelli (chitarra, basso, batteria e pochissimo altro), del sound simile a un live, della brillante scrittura di Billie Joe tutta centrata su testi e melodie memorabili.
Non c’è dubbio sul fatto che Billie Joe Armstrong sia uno dei songwriter più notevoli della sua generazione. La sua scrittura, soprattutto in un album come Dookie, ha qualcosa di “universale”: nasce punk, certo, ma si potrebbe suonare con la stessa efficacia comunicativa con una chitarra acustica in spiaggia (come peraltro spesso accade) così come con un’orchestra sinfonica. E questo è il tratto distintivo dei grandi autori, a prescindere dal genere musicale.
A mio personale avviso, infine, Dookie e i Green Day non sarebbero quello che sono senza la forza propulsiva del basso di Mike Dirnt. Il suo stile è piuttosto essenziale (anche se decisamente più elaborato rispetto ad altri gruppi punk), ma all’ascolto si rivela un elemento fondamentale del sound della band, solido come poteva esserlo Roger Glover dei Deep Purple venticinque anni prima. Come bassista, Mike Dirnt incarna il perfetto equilibrio fra evidenti capacità tecniche e disciplina nel servire l’economia complessiva della canzone, pur trovando i momenti giusti per splendere con finezze di vario genere. Un’ispirazione e un modello.
Green Day: per sempre Dookie
Fra un paio di giorni Dookie dei Green Day compie trent’anni tondi e gli unici ad essere invecchiati siamo noi, mentre l’album sta lì a guardarci sornione con il suo mix di perfette canzoni rock melodiche, ironia, malessere post-adolescenziale, sogni infranti, a ricordarci che ogni volta che ci siamo sentiti fuori posto o disadattati non eravamo dei freak inguardabili ma stavamo semplicemente vivendo.
“L’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”, come direbbe un gigante della canzone italiana. Anche se dubito che i Green Day conoscessero Lucio Dalla e Disperato Erotico Stomp.