“Enea”: il gran ballo di Pietro Castellitto è un giocoso vortice generazionale nelle apocalissi di Roma
Anarchico, vitale, estremo, profondo. Il cinema del giovane regista e attore è un’arma affilata che crea un immaginario e uno stile mai visti prima. Soprattutto nel cinema italiano
Dovrebbero inventare la categoria critica “macosacazz” per Enea, il film di Pietro Castellitto, per il tumulto di emozioni, suggestioni, scelte originali – di regia, scrittura e di casting (tra gli altri Chiara Noschese e Giorgio Quarzo Guarascio, il Giorgio Poi di Tutti Fenomeni, e lo sono tutti qua) – che mette in campo in un film solo. Così tante e così belle che fai fatica a ricordare che questo regista ha solo due film all’attivo. Quello che ha messo in campo con I predatori ed Enea, in tema di provocazioni intellettuali ed estetiche, di ritmo interno della narrazione. Di rivoluzione di senso e di sensi all’interno di una storia che ha le caratteristiche di un vortice. Di un carnevale di maschere romanissime e al contempo universali, dell’abisso dorato in cui una certa generazione in una metropoli decadente può cadere. Ma senza smettere di ballare.
Enea, la trama
Enea ha la vitalità di chi ha voglia di fondare un mondo, o almeno di trovarlo e costruire qualcosa di mai visto prima. È giovane, bello, seducente e nichilista. O forse l’ultimo dei sentimentali. Anzi, il penultimo. L’ultimo è Valentino, l’amico di sempre, l’aviatore neofita, con cui condivide bagordi notturni, chiacchiere in libertà, spaccio di droga e un dolore sotto pelle che nascondono in sorrisi liquidi ma riemerge nei loro occhi. Questo film inizia con una palma che cade su un tetto di vetro, metafora di un racconto vitale e decadente allo stesso tempo e preludio di un finale che infrange un muro di vetri. E lo specchio di un sogno. Enea è il profeta (in)dolente di una generazione che ha capito tutto e per questo sa che il mondo non può essere cambiato. Al massimo preso in giro e deriso. Sfidarlo con l’amore, fino alle estreme conseguenze.
La recensione del film di Pietro Castellitto
Dovremmo scriverci un libro su Enea, su come risuoni l’eco di I predatori in una narrazione più matura e altrettanto coraggiosa. Ogni sequenza di questo film è una mano a poker dell’autore con il cinema. È quell’impasto di genialità e rischio che c’è in chi cerca la fortuna nelle carte, sapendo che ci vuole talento per potersela guadagnare. Si fida delle sue intuizioni, ha scelto in barba a casting di suoi colleghi sempre uguali. Si fida della sua capacità di raccontare, dirigere e recitare. Di essere il centro di un mondo inventato da lui ma anche il generoso Virgilio di se stesso e dei suoi sodali.
Siano una giovane donna che è l’unica a sbugiardarne il disincanto (Benedetta Porcaroli. C’è un filo che unisce 18 regali, L’ombra del giorno e questo film, fatto di crescita interpretativa ed eclettismo) o una famiglia scombinata, in cui mette il padre Sergio e il fratello Cesare, in un metacinema che restituisce verità e alimenta la finzione. Un corto circuito in cui intimità e fantasia viaggiano insieme, filtrate dalla sorridente, garbata disperazione rancorosa incarnata da Chiara Noschese, personaggio quasi sorrentiniano nella sua verità.
La punteggiatura musicale – preparatevi, Spiagge di Renato Zero non sarà più la stessa dopo questo film (e non è la cosa più bella che fa Giorgio Quarzo Guarascio, al suo esordio al cinema. Il suo Valentino struggente e poetico è da premio). E neanche Maledetta Primavera – coreografa il piccolo mondo moderno di una Roma apocalittica e moralmente disintegrata, in cui galleggiano anime insieme piene di grazia e caos.
Pietro Castellitto guarda questo acquario antropologico con l’arguzia ironica che lo contraddistingue. Compone il film mescolando più linguaggi cinematografici, tra movimenti di macchina e composizioni di immagine audaci, perché scommette sul suo talento e vince quasi sempre, non ha paura. Persino gli sbagli di questo film – un finale poco equilibrato e eccessivo, persino per la media già altissima di Enea – sono entusiasmanti. Perché denotano il desiderio di andare oltre e altrove. Di terremotare il modo rassicurante con cui quasi tutti i suoi colleghi cercano di entrare nei salotti buoni o nelle classifiche degli incassi.
C’è una sfrontatezza alla Bertolucci nel suo sfidare lo spettatore e le convenzioni cinefile. Ma c’è anche il coraggio del padre Sergio, da cui ha rubato quella voglia di parlare alla pancia e poi alla testa. Di costringerti ad amarlo prima di capirlo, di sentirlo addosso prima di guardarlo.
Enea è uno di quei film seminali che diventerà un punto di riferimento generazionale e culturale, di cui ci si ricorderà tre o quattro battute geniali, che porterà alcuni a sposarsi con Loretta Goggi che canta la marcia nuziale (per non parlare di quanto canteremo la versione alternativa della hit sorcina) e che troverà diversi imitatori. E speriamo che ne intuiscano la libertà creativa e di pensiero e non cerchino solo in lui una formula, un nuovo format.
Perché il successo del cinema di Pietro Castellitto – sì, abbiamo una cinematografia e un immaginario dopo soli due film. E già questo dovrebbe sottolineare la grandezza dell’autore – è nell’aver imposto a se stesso la libertà. Un’indipendenza di pensiero e visione e la sfacciataggine di non aver paura. Di scene da gangster movie, del grottesco, della disfunzionalità radical chic messa in scena in quella Roma che è davvero il Vietnam, ma non lo avevamo capito. Che quella frase non era una provocazione, ma uno spoiler.
Di Boris Sollazzo per The Hollywood Reporter Roma