Top Story
Digital cover story

Fulminacci, il suono del pop è Infinito +1

Il cantautore romano è il protagonista della nostra cover story digital. Lo abbiamo intervistato a due settimane dall’uscita del suo terzo disco. Con lui abbiamo parlato di desideri, paure, Roma, Milano, IA e ovviamente della sua ultima fatica discografica

Autore Samuele Valori
  • Il9 Novembre 2023
Fulminacci, il suono del pop è Infinito +1

Foto di Filiberto Signorello

Kurt Vonnegut, in uno dei suoi discorsi agli studenti universitari americani, diede un consiglio: «Mettete gli occhiali da sole! Perché i benefici dell’impiego a lungo termine degli occhiali da sole sono stati provati scientificamente, mentre tutti gli altri consigli che ho da darvi sono basati sulla mia vagolante esperienza». Un invito a concentrarsi sulle piccole cose della vita, le uniche certe, e a non prendersi troppo sul serio. Quest’ultima era una delle abilità dello scrittore di Indianapolis e spesso una capacità innata di chi preferisce non interrogarsi troppo, perché basta un attimo per perdersi in un buco nero. Fulminacci questo lo sa bene e quel tipo di occhiali da sole lui li “indossa” da sempre, anche nel suo nuovo album Infinito +1.

Quelli reali li userà un po’ meno, invece, dato che la prima cosa che mi dice, appena ci salutiamo su Zoom, è che a Roma è arrivato l’autunno e il sole è un po’ più spento: «Sono un po’ scosso dalla fine “ritardata” di questa estate che oggi qui è diventata ufficiale. Una cosa terribile».

Il terzo album di Fulminacci è un disco che non si cura né delle stagioni né dei generi: sfocia nel pop – perché pure quello è una cosa seria – e ama giocare. A partire dal titolo Infinito +1. Ognuno di noi – inutile che lo neghiate – l’ha detto almeno una volta. In caso contrario, la vostra vita finora sarà probabilmente stata molto avara di soddisfazioni: è risaputo che in qualsiasi gara “a chi dice il numero più grande” «la risposta “Infinito +1” vuol dire vittoria, perché nessuno può più superarti». Fulminacci ricorda il trucco e recupera dentro di sé quel pizzico di innocenza che non ha mai perso e che rappresenta l’arma migliore per coltivare l’illusione di riuscire a incasellare l’imprevedibilità della vita in un senso che sia calcolabile. Anche quando per farlo bisogna ricorrere a un’espressione matematica che è molto più vicina a un’opinione.

Nel nuovo album Fulminacci allarga i confini, indossa l’abito pop, rimane nudo con la propria chitarra acustica, gioca e si diverte come un bambino. Tutto senza perdere mai la sua vera anima e il filo dell’ironia. Quello stesso filo che, fin da La vita veramente, lo guida, come Arianna, nel labirinto dell’esistenza.

Fulminacci Infinito +1
Foto di Filiberto Signorello

L’intervista a Fulminacci

Il titolo Infinito +1 ricalca, come anche quello di alcune canzoni come Così Cosà, dei tipici modi di dire dei bambini. Citando Santa Marinella, sembra che Fulminacci sia “tornato deficiente” per scrivere questo disco.
In un certo senso sì (ride, ndr). Il titolo nasce dal tipico battibecco che si aveva da piccoli, quando per vincere al gioco “del numero più grande”, a chi rispondeva con “infinito”, tu ribattevi con “infinito +1”. A quel punto avevi vinto la partita. Ho scelto questo titolo perché ritengo che esprima la necessità dell’essere umano di costruire delle gabbie, anche quando si trova davanti all’indefinitezza totale. Noi, come homo sapiens, troviamo difficile concepire ciò che non ha nessun tipo di limite. Ci dà quasi fastidio in realtà. È un paradosso, dal momento che lottiamo per le nostre piccole libertà, ma abbiamo un bisogno inconscio di stabilire dei limiti che ci permettano di dire: “Questa cosa è enorme, ma è questa cosa qui”. Un’esigenza innata di controllare l’incontrollabile.

Quindi la musica diventa un modo per razionalizzare.
Sì, diciamo che vorrei riuscire ad accettare ciò che mi spaventa. Credo che il disagio profondo degli esseri umani nei confronti dell’esistenza derivi dal fatto che non riescono spesso a comprenderne il senso. Tutto inutile parla proprio di questo: guardiamo il piccolo. Se proprio vogliamo interessarci a qualcosa, badiamo al minuscolo quotidiano, tanto comunque non serve a niente. Per cui facciamoci del bene a vicenda e conviviamo civilmente, perché se poi alzi gli occhi e guardi lontano ti accorgi che di fronte alla grandezza dell’universo non ha senso nulla. Quindi perché farsi male?

Dal 2021 e dall’uscita del tuo secondo album Tante care cose, sembra quasi che non ti sia più fermato. Quando hai cominciato a lavorare a Infinito +1?
Ho iniziato molto tempo fa, ma ho scelto di pubblicare man mano quello che scrivevo. Considera che il primo singolo Tutto inutile è uscito lo scorso gennaio. Posso dire che questo album l’ho pubblicato mentre lo stavo ancora scrivendo ed è una cosa che non avevo mai fatto. Di solito, nei miei dischi precedenti, il primo singolo usciva quando il lavoro a livello di scrittura era già completato e al massimo c’era qualcosa da rifinire dal punto di vista tecnico.

Con Infinito +1, invece, ho cominciato a scrivere i brani e ho deciso di farli uscire, anche perché spesso mi è successo di vederli invecchiare nella mia testa, una cosa che mi dà molto dispiacere. Poi devo dire che questo è un album che si presta a essere svelato pian piano. Durante la scrittura non ho mai smesso di fare una serie di esperimenti e desideravo vedere la reazione del pubblico.

Ascoltando Infinito +1 si ha la sensazione che, rispetto a Tante care cose, scritto durante la pandemia, questo album sia più corporale, vivo e suonato.
Fin dalla traccia di apertura Spacca abbiamo scelto di far percepire la musica e far vedere gli strumenti. L’inizio è estremamente materico e in particolare quel pezzo è stato registrato in presa diretta con tutti i musicisti che suonavano contemporaneamente, come si faceva un tempo. Una cosa che mi ha divertito tantissimo e che ormai si fa di rado. Mi sono anche cimentato con il kazoo ne La siepe. Non ho mai studiato uno strumento a fiato, ma il kazoo funziona in modo elementare: ci canti dentro e fa le note. Si possono creare delle sfumature simulando una tromba o un sax in modo empirico. L’impressione, però, è che tu stia suonando uno strumento complesso.

L’identità di questo disco deriva molto anche dal sodalizio che c’è stato tra me e okgiorgio (Giorgio Pesenti n.d.r.). È il mio primo album prodotto interamente da lui e io sento proprio il suono del suo studio, considerazione che lascia il tempo che trova dato che lo posso sapere solo io che l’ho fatto (ride n.d.r). Giorgio è molto attento all’estemporaneità delle cose ed è uno a cui piace la genuinità dei suoni.

La collaborazione con okgiorgio ha influenzato anche il tuo modo di scrivere?
Ci sono brani e brani. Qualche canzone è nata in studio, altre a casa da solo con la mia chitarra acustica. Diciamo che ho cercato di mantenere i piedi in due staffe dal punto di vista dell’approccio alla scrittura ed è anche per questo che la tracklist spazia tra brani pop e altri più cantautoriali. Poi questa è stata la prima volta che ho scritto un disco completamente da zero.

Quindi per Fulminacci non è vero che il secondo album è sempre il più difficile.
Per me Infinito +1 è stato diverso rispetto ai primi due album perché è stato scritto sapendo che questo è il mio lavoro. Il primo disco lo scrivi senza che quella sia ancora la tua professione. La vita veramente è nato dalla classica urgenza dell’emergente, avevo tantissime cose da dire tutte insieme e l’ho approcciato come se fosse un hobby, non avevo un contratto discografico. Mentre per il secondo, Tante care cose, mi sono trovato già dei pezzi che avevo scritto subito dopo aver pubblicato il primo. Infinito +1 è stato invece il primo disco che ho scritto pensando: “Devo fare un disco nuovo”.

Fulminacci Infinito +1
Foto di Filiberto Signorello

In Ragù parli, tra le altre cose, del mercato musicale. Tu come artista, vivi con l’ansia di dover scrivere la hit a tutti i costi?
Mi è venuto questo pensiero qualche volta, ma a differenza di come magari è successo storicamente ad altri, nessuno mi ha messo questa pressione, perché ho la fortuna di lavorare con una squadra che mi lascia fare quello che desidero.  Me la sono messa da solo, magari dicendomi: “Ma voglio essere quello che fa le hit o il cantautore impegnato?”. Alla fine, sono arrivato alla conclusione che posso essere entrambi o nessuna delle due cose.

Il bello di quest’epoca è che non ci sono più certi tipi di muri. Un tempo non potevi valicare alcuni confini, adesso lo puoi fare e non c’è niente di male. Per cui penso “se mi viene in mente una cosa che è più orecchiabile e radiofonica, perché non farla uscire?”. Che poi alla fine di tutto, il denominatore comune è il mio gusto personale, quindi se pubblico una cosa vuol dire che mi piace. Poi spero che sia così anche per il pubblico.

In un mondo di algoritmi e TikTok ha ancora senso la forma album?
Io, da ascoltatore, quando esce un disco lo ascolto dall’inizio alla fine e questa cosa mi piace. Oggi, soprattutto i più giovani di me, probabilmente non lo fanno. È cambiato il modo di fruire la musica, ci sono le playlist e alcuni brani si perdono. Che poi in realtà è una cosa che, in misura minore, succedeva anche prima. È stupido lamentarsi di come funziona, è semplicemente un altro mondo con i suoi pregi e i suoi difetti. Ecco, la cosa negativa di questo periodo storico è che la soglia dell’attenzione sembra non esistere più, io in primis sento che mi sta accadendo questa cosa.

Infinito +1 è un album pop, ma nella tracklist ci sono comunque dei pezzi cantautoriali come Occhi grigi con Giovanni Truppi. Come è nata la collaborazione?
Io sono un fan di Giovanni e ho scoperto che anche lui apprezzava il mio lavoro. Così ci siamo scritti e sono andato a registrare nel suo studio a Bologna. Abbiamo passato dei giorni veramente belli in cui ci siamo scambiati molte idee e abbiamo scritto questo pezzo che parla di entrambi. Apparteniamo a due generazioni diverse ed è stato interessante unire le nostre esperienze e scrivere una canzone d’amore con una persona che sta vivendo una fase differente della vita rispetto alla mia. Poi l’altra cosa curiosa è il fatto che la sua generazione è quella immediatamente precedente alla mia, non è il classico incontro tra il giovane e il maestro. È stata una bellissima esperienza, in quei giorni ho pensato solo alla musica.

Un grande dilemma per gli artisti è l’originalità, tema di cui parli in Filippo Leroy. Ti capita mai quando scrivi una canzone di pensare di essere una copia di qualcun altro o di te stesso?
Di qualcun altro mi è successo, di me stesso no, anche perché non ho ancora capito bene cosa sono. Filippo parla del fatto che comunque si vive e si lavora per imitazione, da sempre. L’arte nasce spesso come forma d’imitazione. Il testo mi è stato un po’ ispirato dal tema dell’intelligenza artificiale e quindi dal ruolo che avrà l’autore nel futuro. Io interpreto questo artista che si sente “stocazzo” e quindi il brano è anche una critica agli artisti che si prendono troppo sul serio, quelli che alle interviste non ironizzano mai. Mi fanno un po’ paura e mi sembrano poco sinceri.

Hai citato l’intelligenza artificiale, cosa ne pensi? La temi oppure la consideri uno strumento utile per migliorare il tuo lavoro?
Credo che sia un un’opportunità. il progresso è inevitabile ed è l’essere umano stesso a innescarlo. Grazie alla tecnologia io posso registrare le canzoni con un computer sul treno e con l’intelligenza artificiale si potranno fare ancora altre cose.  Sia per quanto riguarda la musica, ma anche per quello che le ruota attorno, come grafiche e idee per la visualizzazione. Poi è ovvio che si dovrà regolamentare il tutto.

In Baciami Baciami fai riferimento a Milano, un luogo che per te vuol dire lavoro. Che rapporto hai con la città, si è addolcito con il passare del tempo?
Credo di non essere mai stato a Milano per motivi che non riguardassero il lavoro e questa cosa mi dispiace perché mi piacerebbe molto viverla da turista in vacanza. Poi esiste ovviamente anche un aspetto emotivo e sentimentale: ci vive mio fratello, quindi quando sono lì ho anche l’occasione di stare con lui. In più tutte le persone con cui lavoro sono col tempo diventate degli amici. Milano non è che mi faccia stare male, ecco. Non rientro nella categoria dei romani che dicono che “la cosa migliore di Milano è il treno per Roma”. Resta il fatto che quando sono lì e, magari avviso mio fratello, è perché sono lì per lavorare. Sono uno che se può evitare di fare cose, evita (ride ndr).

Roma è la città che ami e io sono sempre rimasto stupito dal fatto che tu, nato e cresciuto lì, non sia un tifoso di calcio.
A 10 anni ho iniziato a suonare la chitarra e forse questo ha fatto sì che non mi appassionassi al calcio. Ho provato un sacco di volte a guardare le partite e l’ho trovata una cosa molto noiosa. Questa cosa mi dispiace perché so che mi perdo tutta una gamma di sfumature emotive che invece un sacco di amici provano ogni domenica. È come se non credessi a una divinità, ma allo stesso tempo desiderassi questa fede. Da bambino non era facile perché a scuola tutti i discorsi erano monopolizzati dal calcio. Poi per fortuna si cresce, si trovano nuovi interessi e si può discutere d’altro.

Come stai vivendo il fatto che la prima data in un palazzetto di Fulminacci sarà proprio lì?
Io sono una persona ansiosa, quindi sarò molto teso in quei giorni. Credo che noi essere umani non siamo stati progettati per cose così grandi. Sembra assurdo che tu sia su quel palco, stia suonando le tue canzoni e che ci siano tutte quelle persone ad ascoltarle. Una delle cose che mi emozionano di più è il percorso che hanno fatto i miei amici come pubblico. Loro mi hanno seguito fin dal locale più piccolo e il fatto di sapere che lì, sparsi, saranno solo dei puntini, mi fa venire i brividi. E poi la mia fidanzata che c’è sempre stata dal primo secondo: sapere che lei c’è è una cosa importante. Penso che la vita privata sia fondamentale per vivere bene quella pubblica.

Foto di Filiberto Signorello

Tu sei nato nel 1997 e fai parte di quella generazione “di mezzo” di cui avevi già parlato in Giovane da un po’. Da tempo è iniziata una riscoperta degli anni Novanta, come ti fa sentire l’essere “protagonista” di un revival pur non avendo ancora trent’anni?
Mi sento un po’, come dici tu, coi piedi in due staffe. In realtà ho da poco scoperto di appartenere anagraficamente, solo per un anno, alla Gen Z, ma sono molto più affine a quella dei Millennials. Penso che le persone più giovani e più vecchie di me abbiano avuto e, abbiano tuttora, più chiare le cose per cui lottare. È pur vero che ritengo che questo sia un meccanismo di de-responsabilizzazione che metto in atto su me stesso.

Al di là di tutto, i revival ci sono sempre stati: è assurdo come ogni volta crediamo che sia impossibile che ritorni quella cosa orrenda che tutti avevano 30 anni fa e, invece, eccola di nuovo. Per cui penso sempre di essere poco lucido sull’analisi del presente, soprattutto riguardo alle questioni che un giorno magari saranno quelle citate di questo periodo. Ce ne sono di belle, ma anche di brutte purtroppo.

In Così Cosà fai un punto sulla tua vita e con tono ironico rifletti sulla tua esistenza. Di solito questi pensieri, come canti in Simile, si fanno di notte. Immaginiamo che sia sera allora: una tua paura e un tuo desiderio.
La mia più grande paura, ridotta ai minimi termini, è la perdita del controllo. È un tema che ritornava spesso quando andavo dalla mia psicoterapeuta. Si collega alla paura di non essere compreso e questo, secondo me, deriva molto dal periodo storico in cui viviamo dove, col fatto di avere svariati spazi per dire quello che pensiamo, aumentano anche le possibilità di essere fraintesi. Per quanto riguarda il desiderio invece…io in realtà sono contentissimo di quello che ho. Sembra un discorso da prete, ma è così. Sono fortunato perché faccio un lavoro fantastico, oltre che divertente. Ecco sì, il mio desiderio è che rimanga tutto esattamente com’è.

Share: