Pogando sulle rovine del sogno americano con i Green Day
Billie Joe, Mike e Tré Cool si sono esibiti agli I-Days di Milano in una data sold out da oltre 78mila spettatori: due ore abbondanti di live senza momenti morti
Promessa mantenuta. Ieri sera (16 giugno) Green Day sono sbarcati agli I-Days di Milano con un affilatissimo live di oltre due ore in cui – oltre ad alcuni “contorni” – hanno davvero suonato per intero i loro due album più iconici, Dookie e American Idiot, che quest’anno spengono rispettivamente trenta e venti candeline.
“This is not a party, this is a celebration”, sentenzia Billie Joe davanti agli oltre 78mila spettatori dell’Ippodromo Snai La Maura di Milano (la data è sold out). Non si capisce bene la differenza semantica, ma vale tutto. E celebrazione sia, allora. Un doppio anniversario del genere non capita spesso, e queste sono le operazioni nostalgia che ci piacciono.
Il nuovo album Saviors
Facendo un passo indietro, sempre per la logica del “vale tutto”, l’arrivo della band sul palco è annunciato da una bizzarra sequenza di brani: Bohemian Rhapsody e Blitzkrieg Bop. Il pubblico apprezza, quindi va bene così.
L’arrivo dei Green Day agli I-Days di Milano è sulle note terzinate di The American Dream Is Killing Me, lead single del loro ultimo album Saviors. Potremmo aprire una digressione sul potente significato letterale di un titolo del genere alla luce dell’attuale congiuntura geopolitica, ma ci fermeremo qui.
Come raccontavamo nella nostra recensione all’epoca dell’uscita, dopo la prova mediocre di Father of All Motherfuckers in quell’album era evidente la volontà della band di ricollegarsi agli illustri predecessori Dookie e soprattutto American Idiot, complici appunto i loro anniversari tondi e la ritrovata collaborazione con lo storico produttore Rob Cavallo.
Ecco perché le poche canzoni di Saviors del concerto (ci sono anche Look Ma, No Brains!, One Eyed Bastard e Dilemma) si infilano in maniera così naturale nella scaletta. Stessa attitudine, stesso messaggio e stesso sound di allora. Con Saviors i Green Day hanno ritrovato la propria cifra stilistica.
Un pubblico transgenerazionale
Subito dopo la prima canzone i Green Day attaccano con Burnout, opening track di Dookie. Lo suoneranno dall’inizio alla fine, secondo l’esatto ordine della tracklist originale. In teoria nessuna sorpresa, dunque, ma quando partono gli intro di hit come Longview, Basket Case e When I Come Around l’emozione e l’entusiasmo sono gli stessi che il pubblico avrebbe di fronte a un bis inatteso.
L’audience agli I-Days è composta da una vera stratificazione generazionale: ci sono teenager dai capelli colorati che all’epoca dei dischi in questione non erano neanche nati, ex adolescenti ormai trentenni che ricordano i tempi del liceo, rockettari quarantenni e cinquantenni con figlioletti al seguito. E così via. È la prova che i Green Day sono oggi un classico che ha retto alla prova del tempo, al pari dei grandi mostri sacri del rock.
A parte i ricorrenti (troppi) “eeeh-oooh” lanciati da Billie Joe e il solito generico vocabolario base italiano (“ti amo, Milano”, “viva Italia”, “mamma mia” eccetera), l’interazione della band con questo variegato pubblico non è molta. A buona ragione: il tempo è tiranno (per problemi con i residenti del quartiere, i concerti degli I-Days devono finire alle 23), far stare in due ore una scaletta così fitta è un’impresa. Infatti – caso più unico che raro – i Nostri si concederanno il lusso di sforare la deadline di un quarto d’ora buono, comunque tagliando due brani dalla scaletta originaria.
American Idiot sempre attuale
Dopo un “intermezzo” centrale di brani da diverse epoche della band, parte la tranche di American Idiot, anch’esso suonato dall’inizio alla fine secondo l’esatto ordine delle canzoni.
Se Dookie era all’insegno del cazzeggio adolescenziale, adesso tutto si fa decisamente più politico. Pugni chiusi dominano i visual, sul palco si erge un’enorme versione gonfiabile dell’iconica copertina del disco, a un certo punto un altro gonfiabile a forma di aereo sgancia finte bombe sul pubblico. All’epoca il presidente degli Stati Uniti era George W. Bush e le bombe cadevano sull’Iraq, oggi armi made in USA devastano Gaza e sono alte le probabilità di rielezione di Donald Trump. Un enorme déjà vu, in peggio.
La performance continua a ritmi adrenalinici. Una dietro l’altra, le canzoni scorrono senza intoppi o momenti di cedimento. Tutto bello, ma in particolare Jesus of Suburbia è uno dei momenti più notevoli di tutto il live: la “suite” punk rock dei Green Day è un gioiello della loro discografia, ora come allora, e dal vivo è una meraviglia.
La chiusura – siamo quasi venti minuti dopo le “colonne d’Ercole” delle 23 – è con Good Riddance, da tutti conosciuta come Time of Your Life. “It’s something unpredictable, but in the end it’s right”: tutta giusta l’energia positive che i Green Day hanno portato a Milano, ma tutt’altro che imprevedibile.
La scaletta del concerto dei Green Day a Milano
- The American Dream Is Killing Me
- Burnout
- Having a Blast
- Chump
- Longview
- Welcome to Paradise
- Pulling Teeth
- Basket Case
- She
- Sassafras Roots
- When I Come Around
- Coming Clean
- Emenius Sleepus
- In the End
- F.O.D.
- All by Myself
- Know Your Enemy
- Look Ma, No Brains!
- One Eyed Bastard
- Hitchin’ a Ride
- Dilemma
- Brain Stew
- American Idiot
- Jesus of Suburbia
- Holiday
- Boulevard of Broken Dreams
- Are We the Waiting
- St. Jimmy
- Give Me Novacaine
- She’s a Rebel
- Extraordinary Girl
- Letterbomb
- Wake Me Up When September Ends
- Homecoming
- Whatsername
- Good Riddance
Le foto del live agli I-Days di Milano
©Stefano Masselli