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Non fermatevi al primo ascolto di “Tropico del Capricorno” di Guè

Mr. Fini è il re dei feat, ma con il suo nuovo album conferma che i numeri uno sono tali per un motivo: perché bastano a se stessi

Autore Greta Valicenti
  • Il10 Gennaio 2025
Non fermatevi al primo ascolto di “Tropico del Capricorno” di Guè

Guè

Lo diciamo subito: questa non è una recensione di Tropico del Capricorno di Guè. Non lo è perché seppur ad un primo ascolto superficiale a molti possa essere sembrato il suo album meno convincente e più pop, ci troviamo di fronte a un progetto non immediato che merita di essere masticato, digerito e poi giudicato. Non fosse altro che per il peso specifico del suo autore, il ruolo che ricopre nella storia del rap italiano, la molteplicità di influenze che si intersecano nelle produzioni (interamente curate da Sixpm e Chef P – aka Pietrino 2nd Roof -, con incursioni di Big Fish, Bassi Maestro, Bobo e un big della scena di New York come Harry Fraud) e la consueta moltitudine di reference al cinema, alla cultura hip hop e alla letteratura. A partire dal titolo che cita l’omonimo romanzo di Henry Miller del 1939.

Quello che di certo salta subito all’orecchio è che per quanto sia un disco che rappresenta Guè nella sua essenza più pura per le tematiche affrontate (“le donne, i gangsta, i party e le droghe”, per semicitare un altro poeta italiano), Tropico del Capricorno non è tuttavia il classico album a là Guè (a partire dalla struttura, che non presenta quell’intro cinematografica cui ci ha abituati bensì un feat con Rose Villain). Il che, a seconda dei punti di vista, potrebbe essere considerato sia un bene che un “male”.

“Tropico del Capricorno” non è il classico album à la Guè pur rappresentandone a pieno l’essenza

Da una parte perché Cosimo Fini dimostra ancora una volta di poter cambiare pelle come vuole restando sempre credibile. Cucendosi addosso di disco in disco sempre nuovi panni senza trasformare il proprio corpo per entrarci. E in pochi in Italia possono permettersi di essere così caleidoscopici e solidi allo stesso tempo.

Dall’altra perché dopo due dischi come Madreperla (che Guè aveva definito “il suo album dei sogni”) e Club Dogo e una campagna di promo che lasciava presagire un album quasi alla Vero (dallo spoiler di Pain is Love con la produzione di Fraud che non avrebbe sfigurato nel disco uscito nel 2015 a ciò che Guè stesso aveva scritto per presentare l’album – “Il tropico del Capricorno è quello situato nell’emisfero in cui il sole culmina lo zenit […]. È questo ciò che questo disco rappresenta per me. Un culmine, un punto di arrivo”), l’aspettativa (e forse anche un po’ il desiderio) che si era consolidata nelle nostre menti era quella di trovarsi di fronte ad un disco più scuro nei suoni, marcatamente e unicamente rap (seppure la matrice rimanga saldamente hip hop e ancorata alle radici black, con sample che vanno dal funk alla dancehall e citazioni che pullulano, dai Dogo a se stesso, da Doug E. Fresh a Ja Rule e Ashanti e chi più ne ha più ne metta).

Guè dà il suo meglio nelle tracce soliste

Una componente che non manca (Guè ama e conosce questa cultura come pochissimi altri artisti in questo Paese), ma che poteva essere più presente. E che emerge in modo più nitido quando Mr. Fini resta da solo sulla traccia. Se infatti il nostro è il re dei feat, in Tropico del Capricorno le collaborazioni aggiungono poco o nulla (fatta eccezione per Gazelle con Ele A, Nei miei dm con Ernia e Tormento e l’epica Meravigliosa con gli Stadio, che però non possiamo definire come un vero e proprio featuring) e rischiano di distogliere l’attenzione da passaggi lirici di Guè che sono invece degni di nota (come l’outro di Da 0 a 100).

I numeri uno, del resto, sono tali per un motivo: perché bastano a se stessi, e Guè è uno di loro. E infatti i picchi più alti del disco vengono raggiunti nei brani solisti come Vibe, Le tipe (in cui ammette forse per la prima volta di provare amore vero per una donna, anzi tre), e su tutte Astronauta. Outro gigantesca e cinematografica che suona solenne come un testamento. È lì infatti che Guè riesce davvero a scavare negli angoli più oscuri della sua anima inquieta fino a raggiungerne gli abissi. Regalandoci così quei pezzi/flussi di coscienza che negli anni lo hanno elevato a poeta di strada del rap italiano. Un bohémien di sofisticata ignoranza che si muove agilmente e in modo camaleontico tra i bassifondi e gli strati più alti della società. Tra reietti e borghesi, tra gangsta e letterati.

Insomma, Tropico del Capricorno è un album che forse a primo acchito può far sorgere delle perplessità negli ascoltatori più rigidi e inflessibili. Ma che può concedersi un lusso che in pochi hanno e che Guè si è conquistato in tutti questi anni di carriera. Quello del tempo per la comprensione e la sospensione momentanea del giudizio. Ai prossimi dieci ascolti l’ardua sentenza.

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