Gli IDLES e lo spaventoso suono dell’amore
“TANGK” prosegue sul nuovo sentiero imboccato dalla band di Bristol nel precedente “CRAWLER”, stavolta collaborando anche con lo storico produttore dei Radiohead Nigel Godrich
TANGK. Hanno spiegato che è il suono secco delle chitarre, quello che detta il ritmo di Dancer e che schiaffeggiava le orecchie in The Wheel, un’onomatopea quasi militare pensando alla somiglianza con la parola carro armato e al fuoco della copertina. Più passano i minuti, più però si fa strada il sospetto che gli IDLES ci abbiano rivelato solo una parte della verità sul significato di TANGK e sul loro quinto album. Certo, l’amore è il motore, ha detto anche questo il frontman Joe Talbot, ma non è una novità per la band di Bristol. Con il precedente CRAWLER sono cambiate molte cose per gli IDLES, hanno imboccato una strada diversa, apparentemente più tortuosa, e questo nuovo disco è un ulteriore passo in quella nuova direzione.
Nigel Godrich, ovvero come danzare sul dolore
L’album inizia in modo drammatico, con IDEA 01, la prima bozza prodotta in studio con Nigel Godrich. Sì, è lui grande novità, la personificazione della nuova rotta stilistica che vuole intraprendere la band. Era un sogno del chitarrista e produttore Mark Bowen lavorare con il “sesto” componente dei Radiohead ed è diventato realtà dopo la registrazione della serie YouTube di Godrich From The Basement. Il primo brano in realtà non è poi nulla di molto diverso da quanto già fatto dagli IDLES con MTT 420 RR o Kelechi: il pianoforte e il cantato sofferto di Talbot.
Tant’è che quando parte il basso di Gift Horse ci si sente rassicurati. Ecco gli IDLES che abbiamo sempre conosciuto, quelli che sanno essere violenti come un martello e leggeri come un petalo di un fiore allo stesso tempo. Torna pure il riferimento politico antimonarchico nell’ultima strofa, qualcosa che renderà il pezzo uno dei più movimentati dal vivo. Qui viene anche ripreso il concetto della danza, che sia sul dolore o sulla gioia, cambia poco. Lo stesso ballo non convenzionale che la band ci aveva fatto assaggiare con il primo singolo Dancer in collaborazione con gli LCD Soundsystem.
Tuttavia, in entrambi questi pezzi che sembrano avvicinarsi agli IDLES di Ultra Mono e Joy as an Act of Resistance, ci sono altri indizi di qualcosa che pulsa e preme per uscire. Lo si percepisce nel bridge di Gift Horse e nel cantato appena più raffinato e meno urlato di Talbot. Dancer, da questo punto di vista, è il pezzo più convincente.
Amore in freestyle
Se pensiamo alla meticolosità e alla precisione dei testi di Thom Yorke e le contrapponiamo all’estemporaneità dei versi di Joe, viene da chiedersi come abbia potuto reagire Godrich. Gli IDLES hanno sempre colpito per la loro immediatezza, sia sonora che lirica: il rischio di lavorare con un produttore diverso e distante dalla filosofia di Bowen e Kenny Beats, era di finire imbrigliati. Eppure, già da un brano come Progress, si capiva che la band poteva e doveva tentare di rompere la monotonia. Ecco che allora viene fuori un brano ibrido e pesante come POP POP POP. Il suono e i beat sono ragionati, i synth creano un pattern senza spigoli, le angolature le creano semmai il canto e le parole. Talbot improvvisa, utilizza addirittura un termine in tedesco, Freduenfreude: provare gioia per la felicità altrui.
Il contrasto tra l’atmosfera cupa e la luminosità del testo è quello che, ben prima da questo quinto album TANGK, ha caratterizzato gli IDLES. Però stavolta, si spingono un po’ oltre, come nel finale di POP POP POP che sembra rubato da una session di Johnny Greenwood. E allora l’onomatopea cambia senso e diventa pulsazione. Allo stesso modo della batteria e degli accordi di pianoforte che arricchiscono il ritornello di Jungle. Uno dei pezzi in cui la band declina il tema dell’amore su di sé: la felicità è anche avere qualcuno in grado di salvarti. Cosa che gli IDLES, a turno, hanno fatto l’uno con l’altro. E ovviamente con chi li ascolta.
Amore e sofferenza
Come si evince dalla copertina, l’amore è un’esplosione e, come ogni botto, porta con sé la luce e la meraviglia, così come il calore e la distruttività del fuoco. In due tracce di TANGK, tra le più belle dell’album, gli IDLES, per mezzo del racconto del loro frontman, capovolgono il foglio e disegnano l’altra faccia dell’amore. Roy, con il ritmo tribale della batteria, il basso che fa tangk e la chitarra che nel bridge cita il rock psichedelico anni ’60, prepara il terreno a un ritornello in cui Talbot chiede scusa alla sua ex e si inginocchia. Viene in mente The Beachland Ballroom ed emerge ancora di più la passione del cantautore per il mondo soul.
A Gospel prosegue la sezione più sperimentale del disco. Stavolta domina il pianoforte, intervallato da alcuni ingressi cupi di synth e distorsioni, fino agli archi nel finale. Joe Talbot canta in modo ancora più delicato la sofferenza della fine di una storia d’amore. Godrich conduce gli IDLES in un territorio sconosciuto e loro dimostrano di sapersi ambientare e di poterci restare a lungo.
IDLES, TANGK, le chitarre e la nuova anima
Prima di arrivare alla sesta traccia Dancer, il tangk delle chitarre e del basso fa solo delle piccole comparse. Ma poi comincia la seconda parte dell’album, in cui gli IDLES tornano aggressivi, pur adottando diversi registri. C’è il glam rock distorto di Hall & Oates, il post-punk danzereccio della già citata Jungle e la muscolare Gratitude.
Quest’ultimo è uno dei brani del disco in cui si scontrano l’anima primordiale degli IDLES – quella di Brutalism – e quella rinnovata degli ultimi lavori. Come raccontato dai membri della band è stato uno dei pezzi in cui il contrasto è avvenuto anche a livello di scrittura, con due visioni opposte da parte di Bowen e Talbot. È come se Godrich li avesse di colpo trasformati in Yorke e Greenwood. Da un lato c’è la spinta sintetica ed elettronica del chitarrista, che influisce anche sul basso e le chitarre che, anziché volare e precipitare come in War, scavano sinuose nel sottobosco. Dall’altro, Talbot si riavvicina per qualche secondo al growl del passato. Sono le due anime che si scontrano e danno vita a ciò che probabilmente sarà.
Love is the fing
Tangk. Gli IDLES non ci hanno detto tutta la verità, volevano che la scoprissimo, passo dopo passo, riascoltando. Un disco complicato, tutt’altro che immediato nei suoni, il seguito ideale e, in parte estremizzato, di CRAWLER. Forse non il loro migliore album, chissà, il tempo lo deciderà.
Il suono delle chitarre, l’amore e che altro? Beh, la risposta forse è poco oltre la metà, nella canzone migliore del disco, Grace, una delle più belle mai scritte dalla band, che riprende il discorso iniziato con When The Lights Come On. Il Tangk del basso è più dolce, ma la melodia che scolpisce penetra nelle vene. La voce canta una preghiera densa di malinconia e speranza, eppure subentra quella voglia di danzare. Non è solo merito della batteria. Il ballo che ne scaturisce è disperato, come quello di Ian Curtis, e paradossalmente si ferma nel ritornello, quando invece dovrebbe scatenarsi.
Love is the fing. Nessun Dio, nessuna corona, solo amore. Gli IDLES non hanno smesso di scrivere testi politici, anzi forse per il momento storico che stiamo vivendo, hanno scritto il loro album più politico. Tangk è il suono cupo delle chitarre, del basso e della paura di amare e di essere amati, è il battito di un beat che va in sincrono con quello del cuore. Tangk è il botto di un’esplosione, è il calore e il rumore delle schegge che graffiano la pelle quando ci si abbandona all’amore. Tangk è il il timore diffuso nei confronti della grazia e della pace, quello della nostra epoca, fatta di note inquietanti che si ripetono in continuazione e alle quali si spera segua, prima o poi, il suono consolatorio di un sassofono, come nella traccia conclusiva Monolith.